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martedì 28 giugno 2011

fragrante e flagrante

Per fare un grande fritto il pesce va cotto in fragrante. Ma anche colto in flagrante. 
 Perché l' essenza della frittura è proprio la flagranza, ovvero la vampata improvvisa che trascolora il cibo e incendia il gusto. A santificare un fiore di zucca in pastella, ad accendere di gloria una triglia infarinata, a far brillare di luce propria un gamberetto, a trasformare un' alice in una meraviglia  è sempre e comunque la frittura. Che fa letteralmente risplendere il sapore. Lo fa deflagrare, ma proprio alla lettera. Perché la parola fritto discende da una lontana radice indoeuropea, che ha a che fare con il flagrare, cioè con tutto ciò che è ardente, sfavillante, incandescente. Calore e fulgore. La stessa radice da cui derivano flamen, nome dell' antico sacerdote romano del fuoco e del fulmine, e l' indiano Brahma. Come dire che un pescetto fragrante e un nume flagrante hanno qualcosa in comune. E infatti pochi cibi sono divini come una frittura eseguita come dio comanda. Umile e prelibato, semplice e raffinato, il pesce fritto è l' emblema di un mangiare democratico. Non a caso il cartoccio di frittura mista è sempre presente dove la vita popolare esplode allo stato fusionale, e confusionale. Nelle piazze, nelle feste, nei mercati. Cibo schietto per una schietta umanità. Come le anciue e i gianchetti che si mangiano nelle friggitorie di Genova tra le volte fumose e lo scuro degli angiporti dove si insinua la nostalgia salata delle creuze de ma. E gli scartossi che si vendono nei tanti fritolini veneziani persi nel labirinto di calli e campielli. Mentre la fragaglia e la paranza napoletane hanno la stessa vitalistica mescolanza, la stessa concitata armonia della città che si specchia nel golfo delle sirene. E a Siviglia, la Feria de abril ha il suo climax nella noche del pescaito dove si mangia esclusivamente pesce appena fritto, bruciante come il canto delle trianeras. Le gitane che friggono e trafiggono con secolare innocenza, con antico istinto sacerdotale. 

Marino Niola





 Li vedi subito quelli che sono veramente interessati a una ricetta. Lo capisci immediatamente non appena ti chiedono: "andiamo a fare spesa insieme?" Così l'altro ieri mattina mi sono ritrovato a Campo de' Fiori con Sylvie, la nostra amica e vicina di casa, al banco di Maria.
 Un mese fa, in una delle tante riunioni a casa nostra con gli altri tetti per la serata del 15 giugno, avevo preparato dei fiori di zucca ripieni che aveva raccolto mio padre dall'orto. Le erano così piaciuti che da allora non faceva altro che chiedermi: quando mi insegni e quando li prepariamo insieme?
 Allora abbiamo fatto la spesa, 40 fiori, un kg di mozzarella di vaccina, un mazzetto di prezzemolo e basta, tutto il resto acqua gassata, farina, uova e acciughe salate le avevo già a casa. Poi visto che dovevamo friggere, non è che uno si impuzzolisce la cucina tutti i giorni, abbiamo comprato un po' di gamberi, così per non farci mancare niente.
 Siamo tornati subito senza restare troppo tempo sotto il sole con la spesa.
 Abbiamo messo i fiori in frigo e tagliato la mozzarella a pezzetti piccoli piccoli e messa a riposare in un colapasta dentro un grande recipiente in frigorifero per farle perdere il latte e poi ci siamo salutati.
 Ci siamo rivisti intorno alle sei, abbiamo fatto a foglie piccole il prezzemolo, non l'abbiamo tritato, poi le ho fatto vedere come si puliscono le acciughe sotto sale, non si lavano troppo e si toglie via la parte più dura vicino alla testa e tagliate sottili per lungo. In tutto questo Sylvie era sempre più eccitata. E alla fine delicatamente partendo dalla punta, io aprivo i fiori e lei dopo che aveva ancora strizzato il composto (mozzarella, prezzemolo, acciughe) li riempiva e li richiudeva.
 Fatto questo ci siamo seduti in terrazza con un bicchiere di vino tra le mani e abbiamo fatto un po' di chiacchiere, sono due settimane che casa nostra e quella di Sylvie e Valerio non si parla d'altro che della serata del 15 giugno che ci ha emozionato parecchio, ed intanto abbiamo atteso gli altri ospiti Ciretto, Lucio e Valerio.
 Abbiamo iniziato a friggere che eravamo già brilli.
 Prima abbiamo preparato una pastella leggera ma densa, acqua gasatissima molto fredda, farina, due uova che servono da collante e sbattuto grossolanamente.
 Olio di semi di arachidi nel wok, quando ha raggiunto la temperatura, immergevamo nella pastella i fiori tenendoli per il gambo, girando pollice e indice al momento che li tiravamo fuori e li immergevamo nell'olio, così il fiore resta chiuso, friggendo sempre poco per volta.
 Man mano che cuocevamo portavamo fuori e poggiavamo tutto su dei piatti grandi con la carta del pane sopra, intanto che loro iniziavano già a mangiare.
 Al momento di cambiare l'olio abbiamo mangiato anche noi, il tempo che rangiungesse la temperatura e poi di nuovo a friggere.
 Alla fine ancora fiori e poi i gamberi sempre lentamente. Frigge sempre poco per volta, chi non ha la friggitrice, perché la temperatura dell'olio non deve abbassarsi troppo. Se scende la   temperatura, accade che il fritto assorbe troppo olio e non diventa fragrante.
 Alla fine ci siamo ritrovati tutti intorno ad un tavolo, in piedi
a mangiare frittura e risate.
 Quando l'ho interrogata era preparatissima, tra le varie domande (le ho fatto una domanda a trabocchetto) le ho chiesto: qual è la prima cosa che fai quando inizi i fiori zucca ripieni? 
Mi ha risposto: mi lavo le mani!
 Brava, esattamente quello che mi dice Neva quando entro nella sua cucina che vado a imparare.
 Poi niente io mio sono svegliato alle quattro che stavo sulla sdraio sotto il ginko.



martedì 17 maggio 2011

i fratelli Setaro

Qualche volta al ritorno da Marina della Lobra ci fermiamo al pastificio Setaro, l'ultimo pastificio rimasto a Torre Annunziata.
 I tre fratelli Setaro che lavorano nell'azienda di famiglia sono ormai alla terza generazione, hanno grande dedizione al lavoro , una bella passione e se non stanno storti o troppo indaffarati sono pure simpatici.
 Mi racconta Vincenzo, il più grande dei fratelli, che la pasta è prodotta con il sessanta per cento di grano italiano e il quaranta tra canadese e australiano, perché una parte dell'impasto deve essere composta da grano fresco. Il mulino che lo fa apposta per loro sta in Puglia. 
 Le trafile in bronzo hanno cento anni, col tempo sono state aggiornate le macchine ma le trafile sono sempre le stesse, per questo la loro pasta al tatto è ruvida che ricorda certe pietre di mare. 
 Il massimo della produzione non va oltre i venticinque quintali giornalieri.       
 Lavorano tutti in catena di montaggio, con gli stessi orari di lavoro, sempre insieme tutti i fratelli e vanno anche in ferie nello stesso tempo, quindici giorni all'anno e basta.
 Torre Annunziata è stata per cinquant'anni la capitale dell'arte bianca, come la chiamano loro. All'inizio del secolo scorso c'erano una ventina di pastifici, oggi sono gli unici. La città, ormai completamente decadente, è posizionata tra Napoli e Sorrento nella piena rientranza del golfo e con alle spalle il Vesuvio, per questo c'è un bel venticello che viene dal mare che un tempo asciugava bene la pasta stesa per i vicoli. Poi con l'arrivo dei condizionatori negli anni settanta il venticello diminuì e tanti pastifici chiusero i battenti e ci fu anche lì l'affermazione della pasta globalizzata come la Barilla o la Buitoni. Oggi l'essiccazione si fa all'interno del pastificio stesso con i macchinari, ma resta sempre una grande pasta.
 Vincenzo mi dice pure che il sistema di suo nonno per non rompere i paccheri era: cuocere in abbondante acqua, cinque litri per kg, non salare e poi calare la pasta, perché il sale fa scendere la temperatura e finisce che la pasta poi resta troppo tempo in ammollo. Quindi quando l'acqua bolle calare direttamente la pasta, coprire e girare dolcemente, solo quando ha raggiunto di nuovo l'ebollizione, salare.
 Ieri a mezzogiorno.

venerdì 13 maggio 2011

una minestra a mm

 Questa ricetta in casa nostra si chiama "la minestra di Gennarino", in onore di uno chef dove la mangiammo per la  prima volta tre anni fa, durante un corteggiamento stile anni 70, ma Gennarino la fa assai meglio. 
 Per prima cosa cercate di fare una buona spesa, la cucina inizia sempre da una spesa attenta.
Poi tornati a casa, poggiate in un piatto ciò che avete comprato metteteci un pizzico di sale, copritelo, subito in frigorifero e dopo  ve ne andate a lavorare. La sera al ritorno vi appariranno come nella foto, sembra che un'ora prima stavano in acqua.
 D'abitudine i pesci adatti a questa ricetta sono: gallinella, calamari o totani, scorfani, triglie, gamberi, poche vongole a testa. 
 A casa, io spesso trovo Debora, la migliore assistente dell'umanità che mi da una mano, è un gioco nostro che facciamo da tanti anni e questa pasta l'abbiamo preparata insieme ieri sera.
 Squamate, eviscerate e sfilettate i pesci, se non vi va o non lo sapete fare, fatevelo fare già in pescheria, Debora ieri sera mi ha detto: "è inutile che ti impegni ad insegnarmi, tanto io non lo farò mai, mi fa schifo".
 Con quello che normalmente avreste buttato ci fate un brodo, teste di gamberi, lische e teste di scorfano, di gallinella, di triglia e una patata che lo sgrassa.
 Deve cuocere più o meno mezz'ora, lo dovete sempre guardare e non deve schiumare. 
Rompete un aglio col polso e poi svestitelo delicatamente con le unghie della sua pellicola, così non vi puzzeranno neanche le mani, non tagliatelo come a volte fa la mia assistente, mettetelo in una pentola alta ed aggiungete olio, se volete va bene anche un po' di peperoncino e lasciatelo rosolare senza bruciarlo, se vi distraete dovete buttare tutto e ricominciare.
 Aggiungete i totani o i calamari fatti a pezzetti dopo che avete tolto  l'aglio dalla pentola, abbassate un po' il fuoco e coprite, lasciate cuocere per qualche minuto, loro lasceranno già una bella acqua saporita, aggiungete poi il brodo. Quando secondo voi è il momento, mettete in pentola la pasta che più vi piace, io preferisco quella mista, quella per la pasta e patate insomma. Girate spesso, ma non siate nevrotici come Donna Pupetta, che sta sempre con la cucchiarella in mano, dovete solo preoccuparvi che il brodo superi di poco la pasta e che non si azzecchi punto.
 Non vi perdete in chiacchiere inutili (per i principianti è meglio spegnere il telefonino) e tenete gli occhi aperti. A metà cottura aggiungete i filetti di scorfano di triglie e di gallinella, girate ancora e aggiungete il sale e sempre brodo. Se girate con la giusta cura i pesci si rompono ma non si spappolano. Un minuto prima di spegnere aggiungete i gamberi puliti e due o tre vongole a testa per quanti sono gli invitati (in questa stagione fino a settembre se ne trovano di buonissime, anche il pesce ha la sua stagionalità), queste si apriranno leggermente e renderanno la minestra ancora più gustosa .
Alla fine aggiustate di sale e un ramo di rosmarino, aspettate un minuto e poi impiattate. Se è andato tutto bene dovreste sentire il mare in bocca, se invece non vi piace (per colpa mia o vostra), se avete i gatti come noi la date ai gatti (a loro piace), oppure la buttate e scendete a comprarvi un pezzo di pizza...

Piu o meno deve venire come questa, la foto qua sotto non è mia, io non ho assistenti che documentano le nostre cene, ma il piatto è uguale.
 P.S. Il brodo che vi avanza non lo buttate, mettetelo lì dove ci fate il ghiaccio e congelatelo, è un ottimo dado che può rendere più sensuale qualsiasi verdura o altro.

martedì 29 marzo 2011

I carciofi affumicati

Chi è stato almeno una volta in questa stagione nei paesi campani ha sentito un gustoso odore di fumo primaverile. Nelle campagne e nei centri non troppo popolati, i carciofi, spesso di domenica, si cucinano così. Affumicati, con dentro un ripieno di aglio fresco, prezzemolo, cubetti di cuore del loro gambo, sale e pepe, devono cuocere ben coperti con una teglia.
 Anch'io la domenica li preparo sul terrazzo, fino a quando non mi denunciano... o mi trovo i pompieri sotto casa.
 Questi la mia amica napoletana di Ferrara se li ricorda e come.

lunedì 28 febbraio 2011

La scarola

Per chi conosce la cucina vicina a  Napoli e alla sua provicia, ma forse in tutto il sud Italia, sa che la scarola si cucina così, e si chiama così.
 Se si entra in casa e si chiede cosa mangiamo? La risposta può essere "La scarola", non si aggiunge nient'altro, non si deve spiegare in che modo. oppure cosa hai preparato? "Ho fatto la scarola".
 Se per caso la si prepara cruda, la si chiama pure in un altro modo, si dice: ho preparato un insalata, non è più "la scarola". La scarola è una sola e non ha bisogno di essere raccontata. Di solito si sceglie quella più verde, con poche parti bianche, un po' più matura. 
 Chi ha poi l'abitudine di portarsi il pranzo al lavoro, può anche non avere in casa il pane freschissimo, perchè sarà l'umido della scarola che dopo poche ore avrà ammorbidito la colazione.
 Si taglia un bel pezzo di pane in due, ci si mette dentro la scarola bella umida, si richiude e si potegge prima in una carta per il pane, poi in un sacchetto di plastica trasparente per alimenti.
 Li riconosci subito gli uomini che vanno a lavorare con la scarola nel pane, li vedi camminare sui marciapiedi o li incontri negli autobus, perché si proteggono la busta oleata ben stretta sotto il braccio,  allo stesso modo fanno anche i ragazzi che vanno a scuola con la cartella in spalla.
 Non ne esististono molte varianti, ma qualcuno d'inverno la arricchisce con grassi di maiale.
 Io la faccio così:
 Lavo bene la scarola, foglia per foglia e non la faccio asciugare, spacco un aglio con la forza del polso, prendo una pentola bassa, ci metto un cucchiaio d'olio, l'aglio, un'acciuga salata (significa sotto sale, non sott'olio).
 Lascio solo riscaldare, non deve neanche imbiondire, poi ci metto dentro la scarola ancora gocciolante dell'acqua con cui l'ho lavata, aggiungo un po' di capperi, uva passa, pinoli, e olive nere rotte ad unghia e copro. Faccio cuocere a fuoco non aggrassivo. Dopo qualche minuto aggiungo quattro o cinque pomodori, sempre rotti ad unghia, di quelli appesi, vanno bene anche in scatola e ricopro. Alla fine aggiusto di sale. Per capirci il tipo di cottura è uno stufato leggero.
 In frigo si mantiene tre o quattro giorni, ma a casa mia finisce parecchio tempo prima. 
 Rende molto meno rispetto a quella cruda, se prima di cuocerla è tantissima e voluminosa, da cotta potrebbe diventare un solo piatto, quindi regolatevi.

lunedì 13 dicembre 2010

Il pane fatto in casa

Dice la mia ex fidanzata, che sia per il vino che per il pane non appena fai l'upgrade difficilmente torni indietro. Nel senso che basta una volta che bevi un bicchiere di vino di qualità superiore alle tue abitudini che poi lo vorresti bere sempre. Lo stesso vale per il pane, così da qualche tempo ho preso l'abitudine di farlo io in casa. 
La mia ricetta:
600 grammi di farina di Lariano
330 grammi di acqua temperatura ambiente
150/180 grammi di pasta madre, il forno Roscioli ne ha una di 60 anni
Un pizzico di sale
Un po' di pepe macinato fresco con un Peugeot che avete rubato a ''La Coupole'', se non avete quello non ci provate manco che non è la stessa cosa, andate prima a Parigi a rubare un macinapepe.
Semi di finocchietto selvatico a piacere
Per la lievitazione ci vuole molto tempo, anche tutta la notte.
Quindi una volta impastato, preparate i panetti con la forma che gradite e copriteli con un vecchio maglione caldo. Al momento di metterli nel forno già molto caldo, capovolgeteli, quando sarà cotto capirete perchè.
La lievitazione lenta con la pasta madre, rende il pane molto profumato e gli allunga vita, dura tranquillamente una  settimana. Questa è più o meno la ricetta. 
 Ma l'ingrediente più importante siete voi, col vostro innamoramento, nel senso che impastare il pane vi deve piacere, appassionare e dovete essere fieri di avere le mani appiccicate, non dovete sbuffare se dopo la farina è arrivata dappertutto, in cucina come nei capelli, la cucina si pulisce e voi vi fate una bella doccia.



domenica 28 novembre 2010

Pasta e patate (che si mangia in cucina)


La ricetta varia da regione a regione, da  paese a paese, da casa a casa, e capita spesso che nella stessa casa ne esistano varie versioni, a volte per quanti sono i componenti della famglia, immaginatevi le discussioni.
 Io la faccio così, ingredienti: cipolla, aglio, patate (meglio se vecchie), pasta (mista che ora si trova raramente, vanno bene gli avanzi tutti diversi di taglio piccolo o spezzati), carote, sedano, due pomodori di quelli appesi (vanno bene anche in scatola), scorza di Parmigiano, olio, sale e pepe, un ramo di rosmarino.
 Preparare un brodo  con carota, sedano, una cipolla e una patata.
 Soffriggere poca cipolla e poco aglio, per mezzo minuto, non devono imbiondire, aggiungere le patate precedentemente tagliate a cubetti e asciugate con lo straccio. Girare spesso con un cucchiaio di legno,  se no s'azzeccano. Far cuocere le patate senza farle rosolare, fate attenzione che non vengano fritte. Non stare al telefono inutilmente, non impelagarsi in altre faccende casalinghe, non lasciare mai gli occhi dalla pentola, al massimo accendersi una sigaretta o un bicchiere di vino per chi non fuma, però potete parlare con chi gradite. Questo è un piatto che si ''deve guardare'', nel senso che si deve sempre assistere.
 Aggiungere la pasta mista, un mestolo di brodo e girare ancora, man mano che la pasta cuoce aggiungere altro brodo, tenere la parte  liquida sempre poco più alta della pasta che intanto cresce, continuare a girare.
Recuperare dalla pentola qualche pezzetto patata, schiacciatelo con una forchetta e rimettetelo a cuocere, farà da collante e la renderà più consistente.
 Quasi alla fine aggiungere i due pomodori tagliati a unghia, la scorza vecchia di Parmigiano a pezzetti e un ramo di rosmarino. Se vedete una bella minestra densa, sicuri di come ''l'avete guardata'' (se non è così buttate tutto e fatevi un panino), potete anche spegnere quando è al dente, dopo aver aggiustato di sale.
Lasciare raffermare nella pentola coperta per cinque minuti,  un po' di pazienza, non vi eccitate, aspettate. Intanto potete apparecchiare per esempio o avvantaggiarvi iniziando già a pulire la cucina. Impiattate e macinateci un'anima di pepe.
 Dunque, la pasta e patate, si mangia in cucina.
 Ne ho avuto anche conferma qualche anno fa, da una persona a me cara.
 Non si mangia in sala da pranzo, è un piatto per gli intimi non  per i pranzi ufficiali o le tavole imbandite. Bisogna apparecchiare nella giusta e semplice misura, solo l'essenziale, ciò che effettivamente serve e non tirare fuori quel po' di argenteria che negli anni avete trovato a Porta Portese.
 La pasta e patate è l'esaltazione della semplicita popolare e va celebrata così, sennò non è pasta è patate, è un'altra cosa.
 Non a caso non è mai servita nei pranzi al Quirinale. Mai, eppure il Presidente la conosce, ma che vuol dire? lui non può mangiare in cucina, allora neanche la ordina per i banchetti di Stato e poi francamente credo che ai politici neanche piaccia.
Il vino,  ci vuole quello che ti lascia la bocca e i denti viola, rigorosamente senza etichetta, nei bicchieri della nutella.
 I piatti quelli vecchi, da tutti i giorni.
 La tovaglia pulita sì, ma semplice, quella del cassetto della cucina, ma se non c'è va bene uguale.
 Per l'avanzo del giorno dopo esistono un paio di mitologiche versioni. Una  fredda dal frigorifero o dal forno (che quando è spento, in alcune case, specialmente al sud, fa da cambusa), condita solo con un filo d'olio. L'altra ripassata in padella con olio, aglio e peperoncino a fuoco medio alto, ''la dovete sempre guardare'', fino a che non diventa arruscata (rosolata e di colore un po' più scura).
 Io pure oggi l'ho mangiata in cucina,  da solo, avevamo discusso con la mia ex fidanzata, io ho tenuto il punto e pure lei, così ognuno per conto suo.
 Stasera però abbiamo mangiato insieme la cioccolata, intanto che  scoprivamo che basilico ha imparato a togliere gli oggetti dalle scatole e poi dopo rimetterli a posto.


La mia settimana tra cibo e ricordi

di Fabio Picchi

Oggi vorrei essere Ponzese. Non so se avete mai visto i marinai di quella comunità riparare una delle loro reti, con quel loro stare seduti con una gamba completamente distesa e l’altra piegata verso se stessi, quasi sempre sulla banchina di cemento di un porto dove, usando le dita dei piedi e mani leste come una donna esperta in economia domestica, mettono in tensione il filo portante delle loro reti per poi cercare fra le maglie eventuali rotture. Quanta tensione in quei gesti e quanta intenzione in quel loro sapersi districare da eventuali problemi.
Sì, spesso vorrei essere esperto come un marinaio ponzese che guarda il cielo e sa se sarà burrasca o bel tempo dichiarato, se sarà possibile navigare per una nottata di lavoro o se sarà necessario non concedere imprudentemente la propria vita ad un mare capace di ricordarci la nostra insignificanza.
Oggi vorrei essere Ebreo per percepire un brivido da minoranza. Comunità che nella mia città, Firenze, condivide un quartiere con un’anima in parte assolutamente popolare e un’altra decisamente borghese. Quartiere che al suo interno custodisce decine di altre comunità. Quella dei pittori, quella degli scultori, quella degli attori, quella degli architetti e via avanti. L’appartenere ad un qualcosa qui viene facile e comodo portandosi dietro tutti i vantaggi di un generale senso di alleanza.
Oggi vorrei essere Ebreo, perché quando fu costruita la Sinagoga, i cui lavori partirono nel 1872, per tutti era chiaro che il suo profilo doveva e poteva appartenere al profilo della città, chiarendo per bellezza e maestosità il suo appartenere a Firenze. Per la sua inaugurazione tutti i fiorentini, ebrei e non, tenevano in mano per i festeggiamenti una bandiera tricolore dichiarando così la loro volontà di appartenere a una Nazione.
Domenica andrò al mare per ricordare mio padre che non c’è più. Domenica sarò Ponzese.
Lunedì andrò dal mio pizzaiolo preferito e sarò Elbano per quella loro pizza con le acciughe più buona del mondo.
Martedì Driss ci ha promesso un couscous e a fine serata diventeremo tutti Marocchini e continueremo quel discorso sulle banche islamiche di cui mai nessuno parla e sulla loro impossibilità di prestare soldi e di arricchirsi con tassi esosi costringendole così a diventare partner di qualsiasi finanziamento, diventando alleate dei piccoli artigiani, dei commercianti, di chi si vuole comprare la casa, lontane spesso e volentieri, ci racconta il nostro islamico amico, da atteggiamenti di smaccata avidità.
Mercoledì sarò quel che sono sperando sempre di trovare un po’ di allegria in giro, che di questi tempi mi sembra merce rara.
Giovedì mi vedro con Pissi che vivaddio insiste nel voler fare il contadino e che per rendersi più credibile, anche se io gli credo già di molto, si è messo a studiare con successo poesia ma in Ottavina.
Venerdì telefonerò a quell'ebreo di Caffaz per farmi raccontare la pastella del suo baccalà fritto e per trascriverlo in maniera indelebile nella mia memoria, sotto la casella “salare l’olio dove poi friggerai dopo aver assaggiato un primo pezzo di baccalà per raggiungere perfetta salatura”.
Sabato voglio fare il grullo, il grullo del paese, quello che fa finta di non capire niente e che sa poi sommergerti con una risata ridicolizzante, non certo per sua follia ma per le nostre tante ridicolezze. Sabato voglio fare il grullo perché mia nonna si divertiva quando da ragazzo mi scalmanavo e lei dalla finestra mi apostrofava affettuosamente: “Dai, non fare il grullo”. Con un malcelato senso di approvazione mi riportava all’ordine tenendosi però lontana dalle conformistiche assenze di un’affettuosità borghese. Ed era pane olio e sale, pane struscicato col pomodoro sporcato di basilico, olio e due gocce d’aceto e alle volte un pane e zucchero bagnato d’acqua e a sua volta sporcato da due gocce di un vino rosso che tingeva il tutto di un rosa violaceo che sapeva di proibito.
Domenica mi riposo perché in questi giorni ho avuto l’influenza, ho fatto un trasloco, pioveva come Dio la manda, pioveva a catinelle, veniva giù che sembravano funi. Ma sono andato ad abitare fra le stelle, in cima al monte dove vedo Santa Croce, dove sento le sue campane, dove vedo la Sinagoga, dove vedo il mercato di Sant’Ambrogio, non vedo ancora la Moschea ma so che c’è, dove vedo tutta la bellezza e la complessità del vivere insieme. Domenica mi farò invitare da un amico e gli chiederò di farmi il pollo fritto. Perché sapete, lo lascia in infusione dentro un trito di salvia, rosmarino e aglio con del succo di limone per una nottata intera per poi friggerlo con una pastella, anche quella segreta che lui racconta essergli stata insegnata da una, dice lui bellissima, donna livornese di cui però per buona educazione e senso di riservatezza nulla ci vuole raccontare.

Fabio Picchi

lunedì 22 novembre 2010

O rraù


A differenza di quello alla bolognese che utilizza carni già macinate. Il ragù napoletano (rraù, in dialetto)si fa con pezzi interi, muscolo di spalla e collo di manzo. Spuntature di maiale, polpaccio, capocollo e un pezzo di lardo (purtroppo).
 Si soffrigge la cipolla, si aggiunge un po' di lardo e i pezzi di carne tagliati molto grossi, si lasciano rosolare per una mezz'ora e poi si aggiunge il pomodoro. Una volta raggiunta l'ebollizione si lascia cuocere per sei/otto ore a fuoco molto basso (a candela), fino a che la carne non si scioglie. Per la pasta, ci vogliono gli ziti spezzati a mano. Una bella grattuggiata di parmigiano, un po' di pepe e la pirofila arriva in tavola ancora fumante. Visto il tempo per la realizzazione è un piatto tipicamente festivo. La tradizione vuole che si divida in due tempi, si inizia il sabato pomeriggio e si continua la cottura la domenica mattina.
 Un paio di volte l'anno, quando fa freddo, mi piace prepararlo ed invito gli amici a pranzo, così per ricordarmi le domeniche di una volta e per ricordarmi da dove vengo. Il pomeriggio finisce poi davanti al fuoco con le castagne, a chiacchierare e bere vino.
 Poi puntualmente il lunedì mi pento, si perché è vero che cuoce in otto ore, ma ci vogliono anche otto giorni per digerirlo.

mercoledì 13 ottobre 2010

La tradizione

La tradizione. Una delle tante parole che oggi non usiamo più, non che non la usiamo, la evitiamo.
 Evitiamo proprio di averci a che fare. E' vecchia, perchè è già vecchio tutto quello che conosciamo o immaginiamo di conoscere.
 Ci piace più avanguardia, fusion, etnica. Ci piacciono le novità, nella cucina, nell'arte, come nel resto, ci piace sperimentare credendo di osare, mentendo a noi stessi, perchè sappiamo benissimo che non osiamo affatto, sperimantiamo ciò che sappiamo in precedenza, già è fatto per il nostro gusto.
 Io credo che la tradizione invece, sia un serbatoio enorme di sapienza, conoscenza, cultura, storia, dove si confrontano volentieri modi e modalità che vivono in essa.
 Mi sembra, che la vera avanguardia oggi in cucina, sia provare a realizzare una ricetta, fedelmente, come si faceva cento anni fa. E non cuocere a basse temperature per otto ore, come fanno tanti cuochi, con una riproduzione batterica elevata all'ennesima potenza.
La tradizione, non la impari ai corsi del Gambero Rosso o a quelli di Slow Food, là non te la possono insegnare. La devi ereditare. Devi andare a bottega dalle nonne, che so... dalle zie, dalla vicina di casa, è lì  inizia e parte la tradizione. Perchè anche se vecchia, la tradizione, è comunque sapiente, ed è a chilometro zero, nasce sullo stesso territorio dove si consuma. I suoi prodotti non viaggiano, non si esportano.
Due sere fa avevo un ospite di riguardo, Giulietta, la mia ex fidanzata, viviamo insieme da due anni, con cui ho avuto uno splendido Basilico. Ho preparato una zuppa di pesce. Così mi sono ricordato della donna da cui ho ereditato la ricetta, era nata nel 1909, che per spiegarmi che i pesci hanno cotture diverse mi diceva: a treglia è tenera, comm'a cali accussì e stutà ( la triglia ha una carne tenera, va per ultima, cuoce in un istante).

lunedì 13 settembre 2010

Il triangolo culinario


Claude Lévi Strauss (Il crudo e il cotto, 1964) osserva che le tribù più sono primitive e più non usano cucinare, quindi non hanno proprio la parola per indicare la cottura dei cibi, ma non hanno neanche la parola che indica il crudo, perchè il concetto stesso non può essere caratterizzato.
Crudo, cotto, putrido.
Il crudo è la dimensione naturale per eccellenza del cibo, il cotto ne è la trasformazione culturale e il putrido la trasformazione senza intervento dell'uomo.
La consumazione del cibo avviene con diverse modalità che possono essere più vicine o più lontane alla dimensione naturale pura e a volte a quella artificiale mediata dalla cultura.
Così l'arrosto, che è a diretto contatto col fuoco sarà più naturale del bollito, nel quale l'acqua media tra il fuoco e la materia prima. La cottura arrosto dunque rimanda ai fenomeni naturali del vivere umano, mentre il bollito è l'emblema dell'evoluzione culturale.
Poi c'è il putrido o fermentato, senza intervento alcuno, senza manipolazione dell'uomo, adatto per lunghe conservazioni.
Ma il cibo, secondo il triangolo, si può anche affumicare, pratica che si pone a metà tra la dimensione puramente naturale e quella pienamente artificiale. Infatti, nell'affumicatura la mediazione dell'aria favorisce un contatto maggiore col fuoco, ma dilata il tempo di cottura come nel bollito.
Dunque, l'affumicato ed il fermentato, sono il cibo del nomadismo, dei viaggiatori! - per necessità.
Di fatto, si può dire, che il cotto è una trasformazione culturale del crudo, così come il putrido è una sua trasformazione naturale.
Su questo triangolo primordiale si forma, dunque una duplice opposizione. Quella tra elaborato-non-elaborato, da una parte. Quella tra cultura-natura dall’altra.
In termini strutturalisti queste sono nozioni formali ed esse non ci dicono niente su una certa cucina o una certa società. Solo l’osservazione specifica può farci intendere ciò che è crudo, cotto o putrido e, naturalmente, ciò che vale per una società o una cultura non vale per l’altra. A questo proposito Lévi-Strauss nota due cose, che la cucina italiana ha un idea di crudo più ampia di quella della cucina francese e che nel 1944, al tempo della sbarco in Normandia, i soldati americani avevano un’idea di putrido decisamente diversa da quella francese, fino al punto di arrivare a distruggere delle fabbriche di formaggio normanne che ai loro nasi esalavano un odore di cadavere.
“Operando così”, scrive Lévi-Strauss, “si può sperare di scoprire, caso per caso, in che modo la cucina di una società è un linguaggio nel quale si traduce inconsciamente la sua struttura, a meno che questa stessa società non si rassegni, sempre inconsciamente, a svelare le sue contraddizioni.”
Ecco, qualche volta cade l'occhio nei carrelli della spesa al supermercato, pieni di findus, prodotti precotti e surgelati chissà dove, pomodori senza semi e pasta barilla, non riesco proprio a scoprire qual è la struttura di questa società.
E poi, io pure sono un po' primitivo, che mangio spesso pesce crudo.

lunedì 14 giugno 2010

Lettera a Deborah e Maria


Sono quindici anni che il sabato mattina faccio la spesa di frutta e verdura al banco di Maria a piazza Campo de' Fiori. In verità sono sei mesi che non riesco a essere poi così puntuale.
Maria è una bella matrona romana, esattamente come quelle di una volta, una donna importante, intelligente, non parla mai a sproposito. Con poche parole gestisce un banco dove c'è parecchio da fare, in un modo impeccabile. Sta seduta sempre nello stesso posto da una decina d'anni, da quando, come dice lei, ha avuto problemi di cuore, è raro che la si veda impiedi. Siede su una poltrona di pelle nera che le regalò il direttore del banco di Sardegna di Fontana di Trevi. D'inverno si accende la stufetta, d'estate ci mette su un asciugamano per stare più fresca. Porta spesso la testa bassa sui conti, sugli ordini che gli fanno i ristoranti, o a capare le verdure. Senza guardare la piazza riconosce i clienti dal passo, dall'ora in cui arrivano, dal rumore di un motorino e saluta sorridendo. Controlla il banco e non le sfugge niente, ha una decina di dipendenti e sa sempre esattamente quello che stanno facendo. E' l'unica del banco che ricorda di ogni singolo ortaggio il prezzo. Col tempo le sono diventato simpatico, lo so, me ne accorgo, perchè mi dice spesso ''aoh, ma te sei proprio un rompicoglioni''. Comunque, è grazie a lei, se conosco e se amo la stagionalità delle verdure.
Capita pure che mi regala un broccolo o un radicchio antico, coltivato da contadini di Monterotondo o di Priverno e mi fa: tie' pijete sta busta, che si nun li regalo a te, a chi li devo da regalà'.
Propone parecchia verdura che sta fuori dal mercato globale, che viene da orti vicino a Roma. Spesso la globalizzazione è fessa, si perde qualcosa per strada, funziona su un sistema tecnico, matematico, globale, appunto. Dove non arriva con il suo sistema di penetrazione non può farci niente, se ne sta a casa sua. Poi i contadini, quelli veri, sono duri di testa. E così, il mercato, per fortuna, è ancora pieno di prodotti sinceri, come quelli di una volta.
Sabato scorso una bella signora con l'accento francese ha chiesto a Jamal dei pomodori, e gli fa: ''mi raccomando mi dia quelli piccoli, lucidi e soprattutto senza semi''. Maria mi ha guardato facendo un movimento con le spalle. Poi, quando la bella signora è andata via mi ha fatto: ''i vonno così, che ce devo fa', c'ha pure i capelli bianchi, mica è fatta na ragazzina''.
Tempo fa, il mio amico Ciro, mi diceva a proposito delle verdure mangiate nelle proprie stagioni:
''se mangio le zucchine o i fagiolini d'inverno, me vene o' friddo n'guollo'' e ha ragione.
Però io mi pongo un'altra questione: ''il senza semi''. Il senza semi è una crudeltà che facciamo a noi stessi e alla terra.
Avevo compiuto da poco dieci anni, quando in V elementare, la signorina Boccia, la nostra maestra, ci spiegò il regno vegetale e la sua vita. E' fatto così: seme, pianta, fiore, frutto, seme...
Il pomodoro lucidato e senza semi, cara signora bella, da dove cazzo e venuto fuori? Come se io adesso fossi venuto al mondo direttamente quarantenne, senza aver avuto bisogno dello sperma di mio padre e senza aver trascorso l'infanzia.
Perciò, cara Deborah, amica mia, sei e resterai l'assistente che tutti i grandi chef si sognano, compreso Ferran Adria, sappi che non sei sostituibile, sei generosa, e la tua generosità ti regala una bella virtù che tu ci doni, l'umiltà. La tua dolce meraviglia ed i tuoi complimenti di ieri su ciò che avevo preparato mi lusingano, ma soprattutto lusingano la natura stessa!
Era una bella giornata calda di giugno ed abbiamo mangiato pomodori con basilico e peperoncini verdi, un po' di vino bianco e parecchia acqua ghiacciata con limone e menta.
I pomodori, non erano poi così lucidi ed avevano i semi.
Vostro basilicoviola
Pubblicato da basilico a 01.15 0 commenti