venerdì 29 ottobre 2010

Dimenticare ricordando

Certe volte sei proprio obbligato a metter via qualche vecchia cosa. Arriva a un punto in cui non la puoi più utilizzare. Fino a che hai potuto hai sistemato il collo, lo hai anche capovolto, hai ricucito lo strappo, hai sostituito i bottoni, ma poi finisce che le parti mancanti diventano davvero troppe e allora, fine, punto. E' successo qualcosa a me o a lei?
 Per molto tempo, per quindici anni hai indossato la stessa camicia a tutti gli appuntamenti importanti. Con la scusa che ti portava fortuna, in effetti a pensarci adesso, l'unico motivo è solo quello che ti piaceva assai. Poi, improvvisamente,
un giorno ti ritrovi a gettarla nella spazzatura, e provi uno strano sentimento che sta tra la paura, il sollievo e la soddisfazione. Mi sono alleggerito di una camicia o mi sono arricchito di un ricordo?
 Fernando Tavora un giorno ha detto: ''dimenticare è importante quanto ricordare; è un modo per selezionare, dunque una forma del ricordo. Per progettare è importante saper dimenticare, nell'architettura così come nella vita''.

Magari

giovedì 28 ottobre 2010

Amarcord (è un po' lungo, ma ne vale la pena)

I bambini, i giochi e la città.
Sono figlio della città e della guerra. Sono cresciuto a Parigi. Nel 1945 avevo dieci anni. Se provo a mettere in relazione il tema dei miei giochi d’infanzia e quello dei luoghi della città in cui sono cresciuto (in questo caso Parigi), posso supporre, senza grosse possibilità di essere smentito, che le due realtà siano cambiate moltissimo; la cosa più sorprendente sarebbe che i miei ricordi riuscissero a dire qualcosa a un bambino o a un preadolescente di oggi.
Iniziamo con qualche ricordo.
Durante la guerra lo stato maggiore tedesco aveva occupato, vicino al giardino di Luxembourg e al Senato, il lycée Montaigne, che normalmente era la mia scuola. Così, fino all’ottobre del ’44, quando il lycée Montaigne tornò alla sua funzione originale, noi bambini eravamo stati smistati in diverse scuole primarie del quinto arrondissement. Avevo nove anni e a scuola ci andavo da solo a piedi partendo dalla rue Monge, risalendo la rue de la Montagne Sainte-Geneviève, discendendo la rue Soufflot e attraversando il giardino di Luxembourg.
I miei primi luoghi di gioco furono i cortili delle scuole e la strada, poi il giardino di Luxembourg. Il mio quartiere, da cui non mi sono mai allontanato se non per ritornarci, l’ho percorso in tutti i sensi, prima accompagnato dall’uno o l’altro dei miei genitori e poi da solo. È il luogo della mia infanzia al quale sono rimasto fedele. Viaggio molto, ma, a intervalli più o meno regolari, lo ritrovo e mi ci ritrovo.
I nostri giochi d’infanzia erano molto fisici e segnati dagli eventi dell’epoca. Le prime classi della scuola elementare erano miste e le bambine avevano i loro giochi, per esempio "la campana" (la marelle), ai quali di solito noi bambini non ci associavamo. Partecipavamo solamente quando cedevamo alla tentazione di mostrare la nostra forza, mettendoci quindi a saltare di casella in casella con un piede solo, cercando di raggiungere il cielo che coronava quella struttura tracciata frettolosamente per terra con il gesso. Di solito noi giocavamo alla guerra. Divaricavamo le braccia e volavamo per il cortile ruggendo come i motori degli aerei. Da buoni piccoli maschi fallocratici ci suddividevamo i ruoli: alcuni di noi attaccavano le bambine, gli altri le difendevano. L’arbitraggio arrivava spesso dal cielo, quando le sirene risuonavano. Era l’allarme, la guerra vera. Ci facevano scendere di corsa nei rifugi sotterranei, che in questa parte di Parigi erano un pezzo delle catacombe. Quando dopo l’allarme rientravamo a casa, cercavamo i frammenti dei proiettili tirati dalla DCA (la difesa contraerea). Erano delle calamite eccellenti ed erano facili da trasportare poiché si fissavano le une sulle altre, formando dei piccoli cumuli irregolari e compatti che laceravano le nostre tasche.
Più sportivo, il gioco della "palla prigioniera" (balle au prisonnier) opponeva due campi separati da una linea tracciata al suolo. A volte improvvisavamo una partita in uno dei giardini che frequentavo il giovedì, giorno di vacanza da scuola, dove ritrovavo bambini e bambine della mia età, in generale figli di amici dei miei genitori. Il gioco consisteva nel colpire con un lancio di palla ben assestato un giocatore del campo avversario, che, una volta colpito, doveva passare dietro una linea situata in fondo al campo degli avversari che l’avevano appena fatto prigioniero. Ma se i suoi compagni riuscivano a passargli la palla e lui riusciva a sua volta a fare un prigioniero, veniva liberato e riprendeva la partita nel suo campo. Non si risparmiava nessuno: vinceva chi faceva prigionieri tutti i giocatori dell’altro campo.
Quando non imitavamo la guerra, praticavamo qualche gioco più gradevole che poi negli anni è scomparso, come "il cerchio", (le cerceau). Con una bacchetta rigida e leggera, concepita proprio a questo scopo, facevamo ruotare dei cerchi di legno. C’erano diversi gradi di competenza nell’arte del cerchio. Era un gioco sia maschile sia femminile, ma ai ragazzi più forti e agili piaceva fare sfoggio della propria abilità: e allora correvano a rotta di collo e percorrevano delle distanze impressionanti in un tempo record o, ancora, mostravano di riuscire a controllare il cerchio di legno come se fosse un animale da loro addomesticato. Lo lanciavano in avanti imprimendogli un effetto tale da farlo ritornare diligentemente verso di loro dopo aver percorso qualche metro; riuscivano poi a fargli disegnare delle "figure" in aria, come i cavalieri professionisti riuscivano a fare nelle loro cavalcate.
L’altra distrazione, che però io iniziai a praticare solo dai nove anni in poi, era il gioco delle biglie. Il gioco delle biglie conosceva tre versioni, una più mobile e le altre due più statiche, tutte di spirito abbastanza discutibile dal momento che rischiavano di rappresentare per noi bambini una prima forma di gioco a soldi. Alcuni di noi forse hanno potuto in questo modo farne pratica piuttosto precocemente. Infatti, le biglie costavano abbastanza care e le conservavamo gelosamente in piccoli sacchetti di stoffa che aumentavano e diminuivano di volume secondo l’andamento del gioco. Eravamo un po’ come dei ricercatori d’oro sempre diffidenti ma sempre suscettibili di perdere il loro magro tesoro al saloon vicino. Al Luxembourg non c’erano i saloon ma dei baracchini (che esistono ancora), dove delle vecchie signore vendevano con la loro voce dolce delle bibite zuccherate, delle piccole girandole che i bambini più piccoli facevano girare nel vento (per farle girare bastava alzarle al cielo correndo a rotta di collo) e delle biglie più o meno preziose per i veri avventurieri che al pomeriggio intorno alle quattro uscivano dal lycée Montaigne. Tra loro c’era qualche "spregiudicato" che sembrava non preoccuparsi per nulla né dei compiti della scuola né dei propri genitori e, senza scrupoli, si attardava nel luogo di giochi abituale, a mezza strada tra l’Osservatorio e il Senato. Io facevo parte della categoria dei ragazzini timidi e ben educati che facevano sempre i loro compiti e imparavano bene le loro lezioni; tuttavia spesso cedevo alla tentazione di fermarmi a giocare, a costo di rimanere poi senza fiato risalendo di corsa la rue Soufflot per non arrivare troppo tardi a casa. Le biglie più comuni erano fatte di terra. Nelle categorie superiori c’erano quelle di vetro e, al vertice della piramide, quelle di agata che, coloratissime, sembravano delle pietre preziose. Di questi tre tipi di biglie ne esistevano due taglie: le più grosse si chiamavano calot, termine proveniente dalla parola écale (mallo) che originariamente indicava la noce di cocco e che poi è stato applicato agli elmetti dei militari e alle grosse biglie in vetro e terra. Il nostro vocabolario conservava, così, come se niente fosse, qualche traccia di guerra. L’arma assoluta, che non deviava mai una volta lanciata, scagliata, era la biglia o, meglio ancora, il calot in acciaio: si rivelava salda e irremovibile agli assalti delle biglie di terra e di una precisione micidiale nell’attacco.
Gli esempi di questi giochi degli anni ‘40 m’ispirano a distanza qualche osservazione.
La prima è che me ne ricordo.
La seconda è che erano, nel bene e nel male, dei giochi sociali.
La terza è che giocavamo in una città che ha subìto nel tempo radicali trasformazioni, tranne, forse, per quanto riguarda lo spazio particolare, insulare, di certi giardini pubblici.
Me ne ricordo. Questi giochi hanno lasciato in me delle immagini tenaci, che non mi assillano, ma che posso risvegliare senza sforzi. Qualche mese fa ho incontrato un mio vecchio compagno del Montaigne che conservava come me un ricordo nitido di queste scene che avevano luogo nel pomeriggio dopo la scuola. Queste scene ci hanno segnato perché, in una provvisoria assenza dei genitori, nello spazio intermedio e in qualche modo liminare che separava il mondo della scuola da quello della famiglia, in questi brevi istanti di "libertà" dove l’assenza di autorità costituita ci lasciava soli con il nostro "Super-Io", abbiamo fatto pratica di vita sociale e abbiamo cominciato ad assumerci le nostre responsabilità.
Questi giochi presentavano una dimensione sociale reale che noi, a nostro modo, percepivamo. Infatti, in questi incontri dopo la scuola, ci ritrovavamo in un mondo ben più vario e meno protetto sia ovviamente delle nostre famiglie, ma anche della dimensione della classe dove un unico professore ci accoglieva tutti i giorni. C’erano, infatti, bambini di tutte le età e di tutte le categorie sociali nonostante il quartiere fosse relativamente borghese (all’epoca il quinto arrondissement era meno chic rispetto a oggi, e le differenze di classe erano visibili semplicemente nella vita interna di ogni palazzo "hausmanniano", dove ogni piano era abitato da famiglie di estrazione sociale diversa). Frutto dell’epoca e delle immagini di guerra dalle quali eravamo tempestati, noi bambini eravamo abituati a una certa violenza e giocavamo quindi volentieri alla lotta o alla boxe (qualche volta toccò anche a me l’esperienza sfortunata del pugno in faccia). In questo modo ci trovavamo concretamente a doverci scontrare con l’ineguaglianza, non soltanto quella economica, ma anche l’ineguaglianza fisica: c’erano ragazzi più forti e più abili di altri. È ben possibile che per alcuni di loro il tempo dopo la scuola rappresentasse il momento di una rivincita scolastica e sociale inconscia, ma forse dopotutto non così inconscia da non lasciare tracce e ricordi. Tra gli "spregiudicati" di cui parlavo prima credo che uno sia diventato un gangster e l’altro un attore, un attore molto famoso. I giochi dell’infanzia non sono, e non erano all’epoca, più innocenti e privi di significato sociale rispetto a quegli sport professionali di oggi, i cui nuovi talenti sono spesso reclutati nei dintorni delle scuole dei quartieri più popolari. Nei nostri giochi ritrovavamo il cameratismo, l’amicizia e certe forme di solidarietà, ma anche la differenza, la concorrenza e a volte la gelosia e l’antipatia. Insomma, imparavamo la vita.
A volte mi capita, senza voler mitizzare la mia infanzia, di pensare a quest’epoca con qualche rimpianto. E una delle ragioni è l’immagine della città che le è associata. Per spiegare semplicemente e in un modo un po’ naif questa nostalgia, mi basta ricordare che a Parigi nel decennio tra il 1945 e il 1955 c’erano ancora delle carrozze tirate dai cavalli; i venditori ambulanti di frutta e verdura potevano sistemarsi direttamente sulla strada. C’erano meno persone per le vie e soprattutto molte meno automobili. Poteva succedere così che, per noi, la strada si trasformasse in un luogo di gioco e mi ricordo bene di aver partecipato a delle grandi battaglie di palle di neve, dove arrivavamo a costruire addirittura muri e fortificazioni nella piazza del Panthéon. La città doveva parte del fascino che esercitava su noi bambini agli spazi di libertà e responsabilità che offriva. Questi spazi pubblici (e ciononostante esenti da vincoli istituzionali) il cui utilizzo, anche ludico, rappresentava l’inizio della formazione e dell’educazione, o in ogni modo della pratica della relazione con l’altro.

Oggi i giochi sono cambiati e c’è sicuramente molto da osservare e imparare a contatto con i bambini e gli adolescenti. La familiarità che la maggior parte di loro ha con gli strumenti elettronici modifica sia il loro rapporto con la solitudine, sia il modo di instaurare relazioni sociali. È vero anche, d’altro canto, che la geografia della città e dell’ambiente si trasforma. Tuttavia, non è detto che la necessità di aprire spazi pubblici per i bambini e gli adolescenti non resti ancora una necessità urgente. Un mio collega, David Lepoutre, ha scritto un libro molto interessante sull’etnologia della città, Coeur de banlieue, pubblicato nel 1997 da Odile Jacob. Lepoutre insegnava, all’inizio degli anni Novanta, nel quartiere de la Courneuve e la Cité des Quatre Mille e aveva avuto modo di notare che i bambini, a volte molto piccoli e per la maggior parte figli di genitori immigrati, tendevano a formare delle bande, la cui prima occupazione era di appropriarsi del territorio, del loro ambiente, trasformandolo attraverso l’immaginazione: inventavano frontiere, luoghi straordinari e persino riti d’iniziazione. In queste bande di preadolescenti e adolescenti c’erano ragazzi di diverse età, ed era verso i sedici anni il periodo in cui avveniva la selezione tra chi abbandonava la banda e chi entrava invece nel mondo della delinquenza, sollecitato da traffici di tutti i generi.
Senza la pretesa di paragonare il giardino di Luxembourg degli anni ‘50 e le banlieue degli anni ‘90 o di oggi, vorrei suggerire l’idea che i temi del gioco, dello spazio e dell’infanzia hanno da molto tempo una portata sociale e politica fondamentale. Uno dei problemi delle banlieue è che gli spazi di cui i giovani cercano di appropriarsi non sono spazi pubblici, semplicemente perché gli spazi pubblici non esistono o comunque non esistono più oggi. L’immaginario corre liberamente senza un ambiente circostante che lo accolga e dunque senza una protezione simbolica. Il miracolo dei giardini pubblici è dovuto al fatto che sono un bene che permane. Le Tuileries o il Luxembourg non sono cambiati da quando Proust o Anatole France li frequentavano da bambini. Ma, dato il decentramento della capitale verso le periferie, questi giardini fungono da spazi pubblici solamente per una manciata insignificante di favoriti. Uno degli obiettivi del Grand Paris, di cui si parla tanto oggi, dovrebbe essere la creazione, vicino agli edifici scolastici, di luoghi perenni, tra i quali i giardini pubblici restano ancora oggi il miglior esempio. Questi luoghi dovrebbero manifestarsi in modo spettacolare e simbolico come degli spazi pubblici, situarsi in prossimità di edifici pubblici, di teatri o di cinema, non limitarsi alla riduttiva funzione di luoghi di passaggio ma restare aperti, in quanto spazi ludici, alle iniziative dei giovani. Alla fine tutto è politico. Va bene creare stadi, piscine, luoghi strutturati per la formazione di "corpi efficacemente disciplinati", ma è bene anche lasciare che si crei qualche luogo di libera espressione di sé e di confronto con gli altri in spazi che permettono tutto senza nulla imporre. Recentemente mi è capitato di vedere dei ragazzi molto giovani e di talento che si allenavano con lo skateboard la domenica vicino alla fontana di Trocadéro, sotto uno sguardo vagamente preoccupato ma allo stesso tempo ammirato dei passanti e dei turisti. Spero che potremo ancora per lungo tempo continuare a osservarli giocare e sfidarsi nel cuore di Parigi. È il loro modo per crescere ed educarsi.
Marc Augé
(Relazione per il festival internazionale del gioco in strada "tocatì" Verona, 2010)

martedì 26 ottobre 2010

Polizza

Nella cultura contadina,
dove non esistono garanzie per l'inverno,
sono ''un'assicurazione sulla fame''.

sabato 23 ottobre 2010

Ennio, Federico e Marcello

Quel capolavoro assoluto de ''La dolce vita'' è del 1960. E né prima né dopo quell'anno è mai esistita a Roma la dolce vita . E' una pura invenzione cinematografica di Flaiano, Fellini, Pasolini ecc.
 Perciò quando sentiamo: ai tempi della dolce vita facevo questo o quello... O sorridiamo o dobbiamo intendere ''ai tempi che è uscito il film nelle sale''.
 Qualche anno dopo il successo cinematografico in tutto il mondo, Flaiano, Fellini e Marcello, stavano passeggiando per via Veneto, pare ci fosse anche Carlo Ponti. Flaiano indicando delle persone sedute al Cafè de Paris,  disse: ''vedi Federì, quelli credono di essere noi''. Marcello, che con quel suo indicibile sorriso stava per dire qualcosa, fu interrotto da Fellini: ''Marcello non ridere, è anche colpa tua''.

venerdì 22 ottobre 2010

Anno Zero

E' anche grazie alla comunicazione fatta sul web, se Obama ha prima vinto le primarie nel Partito Democratico e poi le elezioni presidenziali, è stato invece, completamente ignorato (il web) da quasi tutti gli altri avversari, McCain compreso. 
La tv è vecchia, è superata ed è noiosa e lei lo sa. E lo sa anche Santoro.
E' stata spiantata dalla rete, che ha fatto in modo che la televisione finisse in una sala di rianimazione, in attesa di esalare l'ultimo respiro.
E' una questione di utenti, di fruitori, di pubblico. Sono fermi, immobili, sono obbligati a digerire tutto quello che gli viene proposto, senza poter dire la loro.
 Lei  può dire di tutto ed il contrario di tutto, tanto dura un istante, non conosce il podcast. Poi finisce. Non ha la memoria di internet, dove si può rivedere o rileggere per sempre tutto ciò che interessa.
 Infatti Santoro, non solo ha sbancato gli ascolti, ma si è divertito moltissimo, come egli stesso ha dichiarato, quando ha messo in onda sul web ''Rai per una Notte''.
 I Talk Show specialmente se di approfondimento politico, fanno male alla politica, fanno male alla gente che vuole farsi un'opinione, fanno male ai giovani che iniziano a credere che fare politica significhi andare a ''Porta a Porta'', dove anche un leader di partito o un ministro può essere tranquillamente scambiato per una soubrette e dove non c'è differenza tra un programma di interesse sociale ed uno sportivo. I talk show, fanno bene solo agli ospiti ed ai loro conduttori.
 Ieri sera, ci abbiamo pensato pure a lungo, ma poi, io e la mia ex fidanzata lo abbiamo visto ''Anno Zero''.
Si è parlato della libertà di informazione in televisione: i soliti ospiti, veramente i soliti. Inutile scrivere che non si è capito niente, un continuo urlarsi addosso, dove tutti si sono lamentati di essere stati interrotti.
 E' anche arrivata, nel finale, una comunicazione di Masi, il Direttore Generale della Rai, dove spiegava che non c'è stato nessun atteggiamento ostile nei confronti di ''Vieni via con me'', ma consueti problemi organizzativi riguardo ad una nuova trasmissione che sta per essere messa in onda, quindi Saviano può stare tranquillo.
Ma il punto non è questo, la cosa che abbiamo notato, che parlando di stipendi, sono venuti fuori i costi di tanti programmi e i compensi  dei conduttori. E come sempre si è finita con la solita demagogia:  il denaro che viene speso per la produzione dei programmi, non viene chiesto ai contribuenti, ma è interamente coperto dai ricavi pubblicitari... e ogni anno nel bilancio della Rai ci sono 200 milioni di passività.
 Perchè non viene mai in mente a nessuno che gli utili provenienti dalla pubblicità sono finanziati  dalle persone che fanno la spesa? che si ritrovano il prezzo del prodotto, più il contributo pubblicitario.
 In altre parole, chi fa le compere al supermercato versa, spesso in anticipo, parte dei due milioni all'anno che percepisce Fabio Fazio.

mercoledì 20 ottobre 2010

La Studio 44

E' ben tornata a casa la Studio 44, è stata in assistenza per tre mesi, che poi in effetti l'assistenza per lei non esiste. Esistono solo le cantine o i garage dei pensionati, quelle micro officine magiche dove ci trovi di tutto. Uno dei vantaggi, per i maschi, del tempo che passa, è possedere un luogo con tutti quegli arnesi e quei ricambi, che ormai non servono più, però all'occorrenza fanno miracoli, si trasformano in vere sale di rianimazione per radio, motorini, o vecchi giocattoli.
Adesso riprendiamo a scriverci parole d'amore scritte a macchina,
perchè come dice il maestro:
memorabile... frasi d'amore scritte a macchina
la nostra storia in quattro pagine...
che, raccontata ci può perdere...

domenica 17 ottobre 2010

Il vulcano buono

Francesco è un viaggiatore, Stromboli, il Kenya e via Baccina
sono i luoghi dove si ferma più a lungo da trent'anni a questa parte.
Secondo lui questi posti si assomigliano ed hanno una radice comune.

A s. m.

 La vita è tutto ciò che ci succede mentre facciamo progetti per il futuro. John Lennon

venerdì 15 ottobre 2010

I critici cinematografici

Il sigonr Paolo D'Agostini (La Repubblica), proprio non ci riesce a non raccontarti il finale quando, come oggi, recensisce un film. Se solo avesse letto Ennio Flaiano o ''Fuori dal cinema'' di Marco Lodoli.

Evviva

Tutti salvi i minatori cileni

mercoledì 13 ottobre 2010

La tradizione

La tradizione. Una delle tante parole che oggi non usiamo più, non che non la usiamo, la evitiamo.
 Evitiamo proprio di averci a che fare. E' vecchia, perchè è già vecchio tutto quello che conosciamo o immaginiamo di conoscere.
 Ci piace più avanguardia, fusion, etnica. Ci piacciono le novità, nella cucina, nell'arte, come nel resto, ci piace sperimentare credendo di osare, mentendo a noi stessi, perchè sappiamo benissimo che non osiamo affatto, sperimantiamo ciò che sappiamo in precedenza, già è fatto per il nostro gusto.
 Io credo che la tradizione invece, sia un serbatoio enorme di sapienza, conoscenza, cultura, storia, dove si confrontano volentieri modi e modalità che vivono in essa.
 Mi sembra, che la vera avanguardia oggi in cucina, sia provare a realizzare una ricetta, fedelmente, come si faceva cento anni fa. E non cuocere a basse temperature per otto ore, come fanno tanti cuochi, con una riproduzione batterica elevata all'ennesima potenza.
La tradizione, non la impari ai corsi del Gambero Rosso o a quelli di Slow Food, là non te la possono insegnare. La devi ereditare. Devi andare a bottega dalle nonne, che so... dalle zie, dalla vicina di casa, è lì  inizia e parte la tradizione. Perchè anche se vecchia, la tradizione, è comunque sapiente, ed è a chilometro zero, nasce sullo stesso territorio dove si consuma. I suoi prodotti non viaggiano, non si esportano.
Due sere fa avevo un ospite di riguardo, Giulietta, la mia ex fidanzata, viviamo insieme da due anni, con cui ho avuto uno splendido Basilico. Ho preparato una zuppa di pesce. Così mi sono ricordato della donna da cui ho ereditato la ricetta, era nata nel 1909, che per spiegarmi che i pesci hanno cotture diverse mi diceva: a treglia è tenera, comm'a cali accussì e stutà ( la triglia ha una carne tenera, va per ultima, cuoce in un istante).

lunedì 11 ottobre 2010

Buon compleanno Radio3

Cara Radio3, quest'anno è un anniversario importante. Sessant'anni che sei nata.
 Non sono pochi ed anche un bel numero per festeggiarli.
 Sono comunque più sinceri i tuoi sessanta, che i quarantacinque che ha festeggiato Valentino o i centoventicinque di Bulgari.
  Anch'io, ti faccio i miei migliori auguri, sentiti, e ti ringrazio per la bella compagnia che mi fai da tanto tempo. Non ti ascolto da ieri e sei la radio che più di tutte preferisco. Sei gentile e discreta sempre, non alzi mai la voce, mai volgare e sempre corretta e sapiente.
Mi piacciono le persone con cui lavori e mi piacciono parecchio i tuoi programmi, a partire da Prima Pagina, al mattino presto, Radio3 suite, Il teatro di Radio3, il lunedì. Poi Fahrenheit e Hollywood Party, i Concerti dal Quirinale e parecchio altro ancora.
 Auguri a te allora, ma auguri anche a tutte le radio del mondo.
 Auguri a quella Radio Alice di Bologna, che negli anni settanta diede il microfono a chiunque e si trasformò in un vero strumento di produzione culturale. A Radio Caroline, la radio pirata, che un decennio prima, trasmetteva musica rock a bordo di una nave in mezzo al mare, da una località non rintracciabile dalle autorità inglesi. Auguri pure a quella meravigliosa foto apparsa su Life, che ritrae un marinaio ed un'infermiera che si baciano su Time Square, dopo l'annuncio alla radio della fine della guerra, almeno così ce l'hanno raccontata. Auguri  all'uccellino che di notte scandiva le ore. La Hit Parade dei 45 giri, il venerdì alle tredici, radio2, certe strillate c'ho preso perchè non mi presentavo a tavola in orario. Auguri a quell'Italia che cambiò di lì a poco, che le domeniche d'inverno si fermava davanti ad una radiolina per Tutto il calcio minuto per minuto. A Rai Stereo Notte, le tre radio della Rai, che da una certa ora trasmettevano lo stesso programma, ti svegliavi al mattino canticchiando un ritornello che non conoscevi prima, c'ho messo anni per capire che era stato l'ultimo pezzo che avevo ascoltato prima di addormentarmi. Auguri a tutte le radio libere, anche quelle piccolissime, da scantinato, che hanno fatto innamorare tante persone, la frase tipica era, con una voce bassa, calda e notturna, di chi conosce l'uso del microfono: questo pezzo è tutto dedicato a Genny da parte di Salvo. Tutti i viaggi in autostrada di notte, dove ero l'unico sveglio, con responsabilità, mi ricordava di non correre e di allacciare le cinture, quando ancora non c'era l'obbligo, allora ancora si chiamava radio 103.3, e quelle belle canzoni che finivano sempre troppo presto.
Poi ogni volta che i miei pensieri sono andati a chi è recluso in carceri, troppo fredde, troppo calde, troppo buie, o negli ospedali, ho sempre sperato che avesse con sé una radio.
Penso a Giuseppe Impastato, che conduceva i suoi programmi contro i mafiosi da una radio libera di Cinisi.
 La radio è lo strumento di chi ha emigrato, di chi ha deciso di mettere le radici al vento di un'altra terra e le ha sospese, così, all'aria, e non gli resta che immaginarsi la vita come vuole lui. Perchè chi ascolta la radio ha una grande immaginazione. In un mondo che vive di immagine lui si attacca più che può ad uno strumento che tutto ha, tranne che l'immagine.
Viva Radio3, viva la radio, viva le onde corte, medie, lunghe e modulazione di frequenza, viva chi l'ascolta, che mi sembra sempre più popolo e sempre meno pubblico.

venerdì 8 ottobre 2010

Le notizie corrono più veloci dell'etica?

3 milioni 680 mila telespettatori, con picchi di 5, ed uno share del 33,25 %, mai visto a mezzanotte su Raitre, io che neanche li so decifrare questi dati, ma i numeri questi sono!
Come si dice a Roma: ''l'altra sera la Sciarelli nun s'è regolata''.
Lei dice che non ne sapeva niente: non ho inseguito lo scoop. Probabilmente è vero, però come mai intanto che gli assistenti di studio le porgevano i comunicati stampa (repubblica.tv), non ha pensato di mandare la pubblicità?
Però sicuramente ne erano già a conoscenza tutti gli alti dirigenti Rai, visto che già la sera prima, con lo stesso argomento, avevano sbancato gli ascolti con porta a Porta a Porta.
Io posso comprendere, ma non condividere tutte le regole del marketing, compresa quella di Bulgari già citata su questo blog, per il lancio, spesso troppo estremo, di un prodotto.
Ma non c'è proprio altro modo per farlo? oltre che far sapere a della ''povera gente'', in diretta tv, che i loro cari non torneranno più a casa.

mercoledì 6 ottobre 2010

Quei CAPITANI CORAGGIOSI di trent'anni fa

Poi, quando arriva il mese d'ottobre, il sabato e la domenica sono poche barche che si muovono da dentro al porto. I pescatori non lavorano e si preparano per il lunedì, si dice che i pesci lo sentono, e così entrano nella marina le anguille di fiume, per stare un po' più nell’acqua salata, a volte si possono anche vedere e poi cefali e saraghi sono più distratti e rilassati. Un po' prima del tramonto andiamo dietro la Chiaia, ma sulla seconda spiaggia, quella piccola e tiriamo la rete.
 Siamo sempre io e David, perché nessuno vuole venire. David prende la barca, quella piccola di plastica, carichiamo la rete, io resto sulla spiaggia, imposto ben stretti i piedi nella rena e tengo un capo della fune. Lui fa il giro a remi e posa la rete nell’acqua, che in questa stagione, a quest'ora è calmissima, che sembra un'enorme lastra di vetro tra il grigio e l’azzurro. La barchetta di plastica è una gioia vederla muoversi con questa calma, fa una bella onda, piccola e vivace, che va parecchio lontano e si allarga sulla Chiaia fino a che non scompare. David non si bagna mai, lui basta che si gira in su i pantaloni fino ai ginocchi, poi è apposto. . . come fa? non lo so? Io, io mi faccio sempre tutto bagnato, sporco e puzzo sempre di pesce.
 Alla gente di quaggiù non piace più a nessuno di tirare la rete. Dicono che si fatica a vacante, che non si prende nulla. A loro piace di sparare i botti a' mmare. Prendono il largo con un motoscafo o con un gozzo a motore, lanciano in acqua due o tre botti, questi, arrivati sul fondo scoppiano. Dopo un minuto sale a galla una scena triste e squallida di pesci massacrati, storditi. Anche carcasse di granchi felloni. Ammazzano quelli buoni e quelli non buoni. Con i botti muore tutto, tutto quello che c'è, non si salva nessuno. L’acqua, con la sabbia melmosa sale e diventa subito nera e puzzolente. Con i botti non c’è sfizio, i pesci non sanno neanche di che cosa muoiono. Accade tutto in un attimo, tutto finisce, e nel mare, sopra e sotto non resta niente, neanche un’alga resta viva. David dice che questo non è pescare, è far male al mare e basta! Purtroppo non ci può fare niente nessuno, perché quaggiù, quasi tutti usano i botti. Dopo gli spari , anche se è d'estate, il mare prende i colori e le onde dell’invernata, si arrabbia, si fa brutto.
 Le reti. Sotto il sole hanno l’odore del mare secco. E’ un odore amalgamato, di sale, di alghe, di spago e di fatica.
 Le teniamo sulla banchina davanti al bar, poi, d’inverno le depositiamo nelle grotte. Le ritiriamo fuori verso marzo, e prima di calarle in acqua le facciamo mettere sempre a posto da don Vicienzo, il più vecchio dei Brigante. Lui tiene una pazienza unica, si siede lì… ed in una settimana te le fa uscire nuove. Ha degli aghi antichissimi tutti rugginosi, si sbraccia la camicia pesante, lascia intravedere la maglia di lana a maniche lunghe, si mette gli occhiali a culo di bottiglia e con movimenti agili, veloci ed eleganti le risistema. Si arrotola un capo intorno al piede, con un braccio la tesa e con una mano e l’aiuto dei denti taglia e cuce. Si ferma solo per prendersi un sorso di caffè, che verso le undici, gli porta donna Amalia.
 È pensionato don Vicienzo, è vecchio assai, ma di mare, ci capisce più di tutti. L’anno scorso c’è stata una forte mareggiata, il dodici di dicembre (e chi se la scorda!), che ha fatto piangere parecchie famiglie. Lui l’aveva intuito già da qualche giorno ed aveva invitato tutti a tirare le barche in secca, aveva detto: ''stu male tiempo nun me piace, saglimm e vuzz'' (1), ma in pochi gli avevano dato retta oltre David. …Dopo qualche giorno tutta la marina era stata svegliata all’alba dal rumore delle onde ingombranti e spaventose che arrivavano fino ai vicoli e del legno che si fracassa contro gli scogli, mentre una tempesta di mare rendeva il porto un cimitero di barche. Venne anche la televisione per fare il telegiornale. Nei giorni che seguirono, nel silenzio che regnava al porto, non disse mai una parola su quel disastro che aveva provato ad evitare. Non si fece bello della sua esperienza, anzi andava dicendo, che chi aveva salvato il gozzo era stato solo fortunato.
 Quando ha finito i rattoppi don Vincenzo, bilancia la rete con i galleggianti ed i piombi. Poi, la prima pescata se la deve fare sempre lui, da solo, dice per provarla, non si porta mai a nessuno. Aspetta la prima giornata di sole, si mette il cappello di lana, si prende il Sant’ Antonio, un gozzetto con entrobordo, e se ne va a largo dietro la punta di San Rocco. Lo riconosciamo subito quando torna, sempre carico di pesce, perché canta, canta ad alta voce, arriva sempre prima la voce e poi vediamo la barca rientrare.
 Stasera abbiamo fatto spugnare qualche tozzo di pane col formaggio, ci siamo fatti un giretto nella Chiaia e lo abbiamo lasciato sull’acqua, sabato scorso ha funzionato. Mentre aspettiamo ci stanno raggiungendo anche Michele mio fratello e Michele mio cugino. Io sono contentissimo, così se loro tengono un capo della rete, io posso andare sulla barca. Gli faccio segno di sbrigarsi che siamo pronti.
 Davide invece, decide che andiamo sulla barca io e mio cugino.
 Velocemente ci spiega fino a dove dobbiamo arrivare e quanta rete dobbiamo mettere sull’acqua e che il remo va calato in acqua di taglio e lentamente, perché sotto i pesci non devono capire cosa stiamo facendo.
 A bordo ci sono due paia di stivali da pescatore, di almeno dieci taglie più grandi di noi, li vediamo, ci guardiamo e li infiliamo in un attimo. Subito al largo della Chiaia, dopo pochi metri il mare è profondo, non si vede il fondale, e inizia una misteriosa guerra, un agguato. Ora si vedrà chi è più furbo, più forte, il più intelligente.
 Michele voga, segue benissimo le istruzioni. Io con la destra tiro la matassa e con la sinistra faccio scivolare la rete. Mi accorgo ora che parliamo con il tono basso, come se non volessimo farci sentire dai pesci, Michele mi sta dicendo che è parecchio tempo che non si mangia una zuppa di pesce, gli faccio segno di non alzare la voce. Mio fratello e David, li vedo, sono pronti, non vedono l’ora. Si sputano sui palmi e li sfregano, intanto che già fanno leva sulle gambe. Stiamo quasi arrivando a riva che Michele fa segno, fa roteare il braccio per indicare le anguille che ha visto e David apre e chiude il pugno per farci sbrigare. Arriviamo, saltiamo, i due Michele tengono la rete e noi spingiamo velocemente la barca fuori dal cerchio.
…Tiriamo la rete.
David ci dà il tempo. Aehohoh, aehohoh!
Le gambe sono zavorrate nella sabbia scura, che non si vedono più i piedi, il culo e la schiena tirano indietro. La forza dei bracci ti dà un dolore sul collo.
 Intanto che ci tiriamo il mare sulla spiaggia, qualche passo in avanti lui ce lo strappa.
 I piedi sudati mi scivolano nella punta degli stivali. La rete ci striscia le cosce e si arrotola sul nero della sabbia lavica. È iniziata la guerra vera, si sono accorti della trappola mortale e cominciano a schizzare fuori dal cerchio, una volta oltre li vediamo volare sull’acqua velocemente. David aumenta il tempo, va sempre più veloce, siamo più tesi noi che loro.
 Non mi sento più le gambe… solo tremore e dolore nei polpacci. Mollo. Cado in acqua. Il mare mi tira. Con un braccio tengo la rete, con l’altro mi aggrappo alla coscia di David. Non voglio lasciare, ma sono stremato. Mi rialzo, tiro forte la rete che mi taglio le mani, gli strappi che diamo ci schizzano, il freddo dell’acqua mi fa ritornare forte, intanto che ancora aumentiamo il ritmo. Aehohoh, aehohoh!
La rete sta diventando leggera, ce l’abbiamo fatta, … e quanti ne sono! Faccio segno a Michele di prendere le sporte.
Bravo! Le bagna prima un po' a' mmare.
 Intanto che abbiamo quasi finito entro in acqua, tanto sono già bagnato, e prendo la rete da dietro, alzo i galleggianti, così nessuno può scappare più, loro tre sbracciano gli ultimi fiati velocissimi.
È finita.
Facciamo cadere i culi sulla rena appiccicosa, senza lasciare la rete, e senza lasciare gli occhi da lei.
È una festa. È una festa tutta d’argento.
Sono tanti che non si capisce che sono. Schizzano sulla riva tutti piegati su sé stessi, non stanno un attimo fermi, saltano anche dalle nostre mani e vanno verso il mare, tengono l’occhio vivo e ben aperto… Riempiamo le sporte.
David, quelli grandi, luccicanti, vispi, sia se sono anguille, capitoni, saraghi, cefali o sarde, li ributta a mare, perché sono incinte ed hanno le uova… lo guardiamo.
 ''Quello che lasci, quello ci trovi '', dice.
 '' Non andiamo mai a casa con un pesce grande'', fa Michele.
 ''Ecco, appunto'', risponde lui, ''da grande capirai. Portate la vostra parte alle vostre mamme e, se stasera volete, siete invitati a casa mia, ci facciamo una zuppa di mazzoni e cipolle ed una magnifica frittura di fragaglie''.
Io …come al solito sono tutto sporco e bagnato, ed intanto è tramontato il sole, e non so come fare asciugare i panni.
Mo che mi vede mia madre….



(1) Questo maltempo non mi convince, tiriamo i gozzi in secca.

martedì 5 ottobre 2010

Notte in Italia

Io ho provato a cantarla con il sentimento di una serenata. Ma figurati, quello anche le ciambelle non sempre vengono col buco, figuriamoci le grandi canzoni, se uno non le sa cantare.

Stromboli, il vulcano buono

venerdì 1 ottobre 2010

Meglio dei Guzzanti


e poi, fu proprio al summit bilaterale Italia Russia, che pronunciò la celebre frase, Romolo e Remolo