giovedì 28 ottobre 2010

Amarcord (è un po' lungo, ma ne vale la pena)

I bambini, i giochi e la città.
Sono figlio della città e della guerra. Sono cresciuto a Parigi. Nel 1945 avevo dieci anni. Se provo a mettere in relazione il tema dei miei giochi d’infanzia e quello dei luoghi della città in cui sono cresciuto (in questo caso Parigi), posso supporre, senza grosse possibilità di essere smentito, che le due realtà siano cambiate moltissimo; la cosa più sorprendente sarebbe che i miei ricordi riuscissero a dire qualcosa a un bambino o a un preadolescente di oggi.
Iniziamo con qualche ricordo.
Durante la guerra lo stato maggiore tedesco aveva occupato, vicino al giardino di Luxembourg e al Senato, il lycée Montaigne, che normalmente era la mia scuola. Così, fino all’ottobre del ’44, quando il lycée Montaigne tornò alla sua funzione originale, noi bambini eravamo stati smistati in diverse scuole primarie del quinto arrondissement. Avevo nove anni e a scuola ci andavo da solo a piedi partendo dalla rue Monge, risalendo la rue de la Montagne Sainte-Geneviève, discendendo la rue Soufflot e attraversando il giardino di Luxembourg.
I miei primi luoghi di gioco furono i cortili delle scuole e la strada, poi il giardino di Luxembourg. Il mio quartiere, da cui non mi sono mai allontanato se non per ritornarci, l’ho percorso in tutti i sensi, prima accompagnato dall’uno o l’altro dei miei genitori e poi da solo. È il luogo della mia infanzia al quale sono rimasto fedele. Viaggio molto, ma, a intervalli più o meno regolari, lo ritrovo e mi ci ritrovo.
I nostri giochi d’infanzia erano molto fisici e segnati dagli eventi dell’epoca. Le prime classi della scuola elementare erano miste e le bambine avevano i loro giochi, per esempio "la campana" (la marelle), ai quali di solito noi bambini non ci associavamo. Partecipavamo solamente quando cedevamo alla tentazione di mostrare la nostra forza, mettendoci quindi a saltare di casella in casella con un piede solo, cercando di raggiungere il cielo che coronava quella struttura tracciata frettolosamente per terra con il gesso. Di solito noi giocavamo alla guerra. Divaricavamo le braccia e volavamo per il cortile ruggendo come i motori degli aerei. Da buoni piccoli maschi fallocratici ci suddividevamo i ruoli: alcuni di noi attaccavano le bambine, gli altri le difendevano. L’arbitraggio arrivava spesso dal cielo, quando le sirene risuonavano. Era l’allarme, la guerra vera. Ci facevano scendere di corsa nei rifugi sotterranei, che in questa parte di Parigi erano un pezzo delle catacombe. Quando dopo l’allarme rientravamo a casa, cercavamo i frammenti dei proiettili tirati dalla DCA (la difesa contraerea). Erano delle calamite eccellenti ed erano facili da trasportare poiché si fissavano le une sulle altre, formando dei piccoli cumuli irregolari e compatti che laceravano le nostre tasche.
Più sportivo, il gioco della "palla prigioniera" (balle au prisonnier) opponeva due campi separati da una linea tracciata al suolo. A volte improvvisavamo una partita in uno dei giardini che frequentavo il giovedì, giorno di vacanza da scuola, dove ritrovavo bambini e bambine della mia età, in generale figli di amici dei miei genitori. Il gioco consisteva nel colpire con un lancio di palla ben assestato un giocatore del campo avversario, che, una volta colpito, doveva passare dietro una linea situata in fondo al campo degli avversari che l’avevano appena fatto prigioniero. Ma se i suoi compagni riuscivano a passargli la palla e lui riusciva a sua volta a fare un prigioniero, veniva liberato e riprendeva la partita nel suo campo. Non si risparmiava nessuno: vinceva chi faceva prigionieri tutti i giocatori dell’altro campo.
Quando non imitavamo la guerra, praticavamo qualche gioco più gradevole che poi negli anni è scomparso, come "il cerchio", (le cerceau). Con una bacchetta rigida e leggera, concepita proprio a questo scopo, facevamo ruotare dei cerchi di legno. C’erano diversi gradi di competenza nell’arte del cerchio. Era un gioco sia maschile sia femminile, ma ai ragazzi più forti e agili piaceva fare sfoggio della propria abilità: e allora correvano a rotta di collo e percorrevano delle distanze impressionanti in un tempo record o, ancora, mostravano di riuscire a controllare il cerchio di legno come se fosse un animale da loro addomesticato. Lo lanciavano in avanti imprimendogli un effetto tale da farlo ritornare diligentemente verso di loro dopo aver percorso qualche metro; riuscivano poi a fargli disegnare delle "figure" in aria, come i cavalieri professionisti riuscivano a fare nelle loro cavalcate.
L’altra distrazione, che però io iniziai a praticare solo dai nove anni in poi, era il gioco delle biglie. Il gioco delle biglie conosceva tre versioni, una più mobile e le altre due più statiche, tutte di spirito abbastanza discutibile dal momento che rischiavano di rappresentare per noi bambini una prima forma di gioco a soldi. Alcuni di noi forse hanno potuto in questo modo farne pratica piuttosto precocemente. Infatti, le biglie costavano abbastanza care e le conservavamo gelosamente in piccoli sacchetti di stoffa che aumentavano e diminuivano di volume secondo l’andamento del gioco. Eravamo un po’ come dei ricercatori d’oro sempre diffidenti ma sempre suscettibili di perdere il loro magro tesoro al saloon vicino. Al Luxembourg non c’erano i saloon ma dei baracchini (che esistono ancora), dove delle vecchie signore vendevano con la loro voce dolce delle bibite zuccherate, delle piccole girandole che i bambini più piccoli facevano girare nel vento (per farle girare bastava alzarle al cielo correndo a rotta di collo) e delle biglie più o meno preziose per i veri avventurieri che al pomeriggio intorno alle quattro uscivano dal lycée Montaigne. Tra loro c’era qualche "spregiudicato" che sembrava non preoccuparsi per nulla né dei compiti della scuola né dei propri genitori e, senza scrupoli, si attardava nel luogo di giochi abituale, a mezza strada tra l’Osservatorio e il Senato. Io facevo parte della categoria dei ragazzini timidi e ben educati che facevano sempre i loro compiti e imparavano bene le loro lezioni; tuttavia spesso cedevo alla tentazione di fermarmi a giocare, a costo di rimanere poi senza fiato risalendo di corsa la rue Soufflot per non arrivare troppo tardi a casa. Le biglie più comuni erano fatte di terra. Nelle categorie superiori c’erano quelle di vetro e, al vertice della piramide, quelle di agata che, coloratissime, sembravano delle pietre preziose. Di questi tre tipi di biglie ne esistevano due taglie: le più grosse si chiamavano calot, termine proveniente dalla parola écale (mallo) che originariamente indicava la noce di cocco e che poi è stato applicato agli elmetti dei militari e alle grosse biglie in vetro e terra. Il nostro vocabolario conservava, così, come se niente fosse, qualche traccia di guerra. L’arma assoluta, che non deviava mai una volta lanciata, scagliata, era la biglia o, meglio ancora, il calot in acciaio: si rivelava salda e irremovibile agli assalti delle biglie di terra e di una precisione micidiale nell’attacco.
Gli esempi di questi giochi degli anni ‘40 m’ispirano a distanza qualche osservazione.
La prima è che me ne ricordo.
La seconda è che erano, nel bene e nel male, dei giochi sociali.
La terza è che giocavamo in una città che ha subìto nel tempo radicali trasformazioni, tranne, forse, per quanto riguarda lo spazio particolare, insulare, di certi giardini pubblici.
Me ne ricordo. Questi giochi hanno lasciato in me delle immagini tenaci, che non mi assillano, ma che posso risvegliare senza sforzi. Qualche mese fa ho incontrato un mio vecchio compagno del Montaigne che conservava come me un ricordo nitido di queste scene che avevano luogo nel pomeriggio dopo la scuola. Queste scene ci hanno segnato perché, in una provvisoria assenza dei genitori, nello spazio intermedio e in qualche modo liminare che separava il mondo della scuola da quello della famiglia, in questi brevi istanti di "libertà" dove l’assenza di autorità costituita ci lasciava soli con il nostro "Super-Io", abbiamo fatto pratica di vita sociale e abbiamo cominciato ad assumerci le nostre responsabilità.
Questi giochi presentavano una dimensione sociale reale che noi, a nostro modo, percepivamo. Infatti, in questi incontri dopo la scuola, ci ritrovavamo in un mondo ben più vario e meno protetto sia ovviamente delle nostre famiglie, ma anche della dimensione della classe dove un unico professore ci accoglieva tutti i giorni. C’erano, infatti, bambini di tutte le età e di tutte le categorie sociali nonostante il quartiere fosse relativamente borghese (all’epoca il quinto arrondissement era meno chic rispetto a oggi, e le differenze di classe erano visibili semplicemente nella vita interna di ogni palazzo "hausmanniano", dove ogni piano era abitato da famiglie di estrazione sociale diversa). Frutto dell’epoca e delle immagini di guerra dalle quali eravamo tempestati, noi bambini eravamo abituati a una certa violenza e giocavamo quindi volentieri alla lotta o alla boxe (qualche volta toccò anche a me l’esperienza sfortunata del pugno in faccia). In questo modo ci trovavamo concretamente a doverci scontrare con l’ineguaglianza, non soltanto quella economica, ma anche l’ineguaglianza fisica: c’erano ragazzi più forti e più abili di altri. È ben possibile che per alcuni di loro il tempo dopo la scuola rappresentasse il momento di una rivincita scolastica e sociale inconscia, ma forse dopotutto non così inconscia da non lasciare tracce e ricordi. Tra gli "spregiudicati" di cui parlavo prima credo che uno sia diventato un gangster e l’altro un attore, un attore molto famoso. I giochi dell’infanzia non sono, e non erano all’epoca, più innocenti e privi di significato sociale rispetto a quegli sport professionali di oggi, i cui nuovi talenti sono spesso reclutati nei dintorni delle scuole dei quartieri più popolari. Nei nostri giochi ritrovavamo il cameratismo, l’amicizia e certe forme di solidarietà, ma anche la differenza, la concorrenza e a volte la gelosia e l’antipatia. Insomma, imparavamo la vita.
A volte mi capita, senza voler mitizzare la mia infanzia, di pensare a quest’epoca con qualche rimpianto. E una delle ragioni è l’immagine della città che le è associata. Per spiegare semplicemente e in un modo un po’ naif questa nostalgia, mi basta ricordare che a Parigi nel decennio tra il 1945 e il 1955 c’erano ancora delle carrozze tirate dai cavalli; i venditori ambulanti di frutta e verdura potevano sistemarsi direttamente sulla strada. C’erano meno persone per le vie e soprattutto molte meno automobili. Poteva succedere così che, per noi, la strada si trasformasse in un luogo di gioco e mi ricordo bene di aver partecipato a delle grandi battaglie di palle di neve, dove arrivavamo a costruire addirittura muri e fortificazioni nella piazza del Panthéon. La città doveva parte del fascino che esercitava su noi bambini agli spazi di libertà e responsabilità che offriva. Questi spazi pubblici (e ciononostante esenti da vincoli istituzionali) il cui utilizzo, anche ludico, rappresentava l’inizio della formazione e dell’educazione, o in ogni modo della pratica della relazione con l’altro.

Oggi i giochi sono cambiati e c’è sicuramente molto da osservare e imparare a contatto con i bambini e gli adolescenti. La familiarità che la maggior parte di loro ha con gli strumenti elettronici modifica sia il loro rapporto con la solitudine, sia il modo di instaurare relazioni sociali. È vero anche, d’altro canto, che la geografia della città e dell’ambiente si trasforma. Tuttavia, non è detto che la necessità di aprire spazi pubblici per i bambini e gli adolescenti non resti ancora una necessità urgente. Un mio collega, David Lepoutre, ha scritto un libro molto interessante sull’etnologia della città, Coeur de banlieue, pubblicato nel 1997 da Odile Jacob. Lepoutre insegnava, all’inizio degli anni Novanta, nel quartiere de la Courneuve e la Cité des Quatre Mille e aveva avuto modo di notare che i bambini, a volte molto piccoli e per la maggior parte figli di genitori immigrati, tendevano a formare delle bande, la cui prima occupazione era di appropriarsi del territorio, del loro ambiente, trasformandolo attraverso l’immaginazione: inventavano frontiere, luoghi straordinari e persino riti d’iniziazione. In queste bande di preadolescenti e adolescenti c’erano ragazzi di diverse età, ed era verso i sedici anni il periodo in cui avveniva la selezione tra chi abbandonava la banda e chi entrava invece nel mondo della delinquenza, sollecitato da traffici di tutti i generi.
Senza la pretesa di paragonare il giardino di Luxembourg degli anni ‘50 e le banlieue degli anni ‘90 o di oggi, vorrei suggerire l’idea che i temi del gioco, dello spazio e dell’infanzia hanno da molto tempo una portata sociale e politica fondamentale. Uno dei problemi delle banlieue è che gli spazi di cui i giovani cercano di appropriarsi non sono spazi pubblici, semplicemente perché gli spazi pubblici non esistono o comunque non esistono più oggi. L’immaginario corre liberamente senza un ambiente circostante che lo accolga e dunque senza una protezione simbolica. Il miracolo dei giardini pubblici è dovuto al fatto che sono un bene che permane. Le Tuileries o il Luxembourg non sono cambiati da quando Proust o Anatole France li frequentavano da bambini. Ma, dato il decentramento della capitale verso le periferie, questi giardini fungono da spazi pubblici solamente per una manciata insignificante di favoriti. Uno degli obiettivi del Grand Paris, di cui si parla tanto oggi, dovrebbe essere la creazione, vicino agli edifici scolastici, di luoghi perenni, tra i quali i giardini pubblici restano ancora oggi il miglior esempio. Questi luoghi dovrebbero manifestarsi in modo spettacolare e simbolico come degli spazi pubblici, situarsi in prossimità di edifici pubblici, di teatri o di cinema, non limitarsi alla riduttiva funzione di luoghi di passaggio ma restare aperti, in quanto spazi ludici, alle iniziative dei giovani. Alla fine tutto è politico. Va bene creare stadi, piscine, luoghi strutturati per la formazione di "corpi efficacemente disciplinati", ma è bene anche lasciare che si crei qualche luogo di libera espressione di sé e di confronto con gli altri in spazi che permettono tutto senza nulla imporre. Recentemente mi è capitato di vedere dei ragazzi molto giovani e di talento che si allenavano con lo skateboard la domenica vicino alla fontana di Trocadéro, sotto uno sguardo vagamente preoccupato ma allo stesso tempo ammirato dei passanti e dei turisti. Spero che potremo ancora per lungo tempo continuare a osservarli giocare e sfidarsi nel cuore di Parigi. È il loro modo per crescere ed educarsi.
Marc Augé
(Relazione per il festival internazionale del gioco in strada "tocatì" Verona, 2010)

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