venerdì 26 agosto 2011

Vacanze

Mi piace lo spazio emotivo. L'idea di un periodo di tempo incantato che è tale proprio perché è circoscritto nel tempo.
 Per quello che mi riguarda non sono mai andato in vacanza e non amo le vacanze. Probabilmente perché viaggio molto, pur muovendomi poco. Viaggio da solo o in compagnia non accade sempre con la stessa modalità. Viaggio quando faccio la spesa al mercato, quando cammino sul marciapiede da solo, quando incontro qualcuno che viene da un luogo assai diverso dal mio, viaggio quando mi immagino le vite degli altri senza conoscerli. Viaggio quando entro in un vecchio mulino di montagna o in una cucina di un rifugio con un'anziana signora che sta ai fornelli. Viaggio in una stalla quando mi raccontano quanto è difficile far partorire una mucca. Quando sento il profumo del fieno tagliato e mi immagino che è quello che ha sentito mio nonno. Quando ascolto Blowin' in the wind, lì viaggio proprio nel tempo, me ne vado indietro di quarant'anni. 
Ma poi torno sempre. E poi riparto però.

mercoledì 24 agosto 2011

Manovra economica, finanziaria 2012

"Se un euro ogni tre venisse regolarmente dichiarato al fisco, non ci sarebbe bisogno della manovra"
Paolo Griseri, La Repubblica, mercoledì 17 agosto

"Le cose che non ho mai fatto e mai farò: non ho mai pagato le tasse e me ne vanto. Le tasse sono come la droga, le paghi una volta e poi entri nel tunnel. Non ho mai rispettato l'avversario politico. Gli ho sempre detto sinceramente e onestamente: 'ntu culo, senza se e senza ma. La mia carriera è sempre stata coerente anche nelle piccole cose e nei piccoli gesti. Non ho mai rispettato un limite di velocità. Non ho mai dato la precedenza a un incrocio. Figurati, è un attimo, ti fermi a un semaforo rosso e finisce che ti pigliano per ricchione. Non ho mai fatto raccolta differenziata, non ho mai costruito con permessi edilizi. Insomma, io sono il cittadino modello. Sono legittimato dal voto del popolo. Sono uguale a voi. Io ci sarò sempre! E tenete a mente, qualunque cosa succeda, il mio non sarà un addio, ma un arrivederci. 
Io sono la realtà, voi siete la fiction".
Cetto La Qualunque (Antonio Albanese)
Vieni via con me, novembre 2010

mercoledì 17 agosto 2011

Sotto casa, di Alessio Lauria

E' uno dei vincitori della seconda edizione di "Talenti in corto". 
Tratta dell'emozione che si prova nel trovare parcheggio esattamente sotto casa propria.

martedì 9 agosto 2011

i bolognesi secondo Guccini

Quarta di copertina del libro "certo che voi di Bologna..." di Giorgio Comaschi.

consuetudini d'estate

Al termine di un incontro con il Ministro Tremonti, il Ministro delle Riforme Umberto Bossi mostra il consueto dito medio ai giornalisti.

venerdì 5 agosto 2011

amori e bugie

Rita Scherlin e Francesco P.

mercoledì 3 agosto 2011

Camila Vallejo (una leader non per caso)

"Negli anni del regime militare (1973-1988) Pinochet riformò in chiave classica tutto il sistema scolastico cileno. Cioè, collegi e università solo per i ricchi." 
 Dalla fine di Pinochet sono passati più di vent'anni e ancora si continua a investire pochissimo nella scuola, solo lo 0,84% del PIL, se ne sono guardati bene anche governi socialisti (da Lagos a Bachelet) a fare riforme. Le università sono tra le più care del mondo e le meno organizzate. Ma è "l'istruzione" a essere un disastro, che ripropone fin dalla più tenera età una rigidissima differenza di classe. Alle richieste di "riformare il sistema universitario" degli studenti, il governo ha risposto con il progetto di un notevole finanziamento, gli studenti lo hanno rifiutato perché non vogliono soldi ma una "riforma strutturale".
A novembre scorso è stata eletta presidente della Federazione degli Studenti Universitari del Cile, Camila Vallejo Dowling. La seconda donna presidente in 106 anni. E da marzo che stanno divertentemente manifestando. Sono loro i 1800 ragazzi che hanno inscenato Thriller d'avanti al palazzo del governo che ha fatto il pieno di visualizzazioni sul web. E da marzo ad oggi per tre volte ha portato in piazza seicentomila persone e non solo studenti, ma anche famiglie e docenti. Nelle strade sfilano veri e propri carri allegorici (e che te ne fai dei gay pride spagnoli) e negli atenei si organizzano maratone teatrali.
Camila Vallejo 23 anni, un piercing al naso, il volto curioso e attento, ci sta mettendo la faccia nella protesta, e che faccia: due occhi azzurro-verde da far abbassare lo sguardo a quelli di Spencer Tracy e Paul Newman. 
 Giovane, bella, dotata di carisma politico come pochi, sta scalando le classifiche di popolarità in Cile e in tutto il Sud America, tanto da far paura al Presidente Sebastian Pinera che è andato giù di brutto nei sondaggi. S'era appena rialzato con il salvataggio dei minatori (mi sembra in ottobre), che è ricrollato giù di nuovo in pochi mesi. Pinera è un po' il Berlusconi della zona del Cile, ha vinto le elezioni tenendo compatta una larga coalizione di centro destra ed è proprietario di un importante canale televisivo, Chilevisiòn, creativo il nome...





A sentire gli esperti, è nata per essere leader. 
I politologi ne lodano l'intelligenza, l'intuito politico, ma anche il carisma.
 Fino a novembre dell'anno scorso era solo una studentessa di Geografia in uno degli istituti più prestigiosi e combattivi di Santiago del Cile. Poi è diventata il capo della rivolta, così che da cinque mesi guida settecento istituti occupati. 
Invitata ad un programma televisivo della emittente Chilevisiòn, l'hanno incalzata tre vecchie volpi delle politica e della stampa, si è difesa con freddezza e vigore. Ha spigato con pacatezza ma con grinta (esattamente come si fa a Ballarò) le ragioni della protesta ed ha esposto le richieste degli studenti: scuola gratuita e di qualità, al posto di quella classista e dispendiosissima.
 Ha ventimila amici su Facebook, che la sostengono in tutti i modi. 
 Alle domande se è fidanzata e quando prepara la tesi?
 Ha risposto: ora non ho tempo per fidanzarmi e preparerò la tesi solo dopo le riforme.
 Figlia di comunisti, vive con i genitori in un quartiere modesto della capitale, si dice comunista anche lei. E' diventata il nuovo riferimento per la gioventù cilena.
 Qualche giorno fa il Presidente l'ha invitata ad un incontro.
 Lei ha risposto dal suo blog: "non siamo disposti ad abbassare le braccia e continueremo la nostra lotta fino a quando non riceveremo garanzia di impegni concreti, non inviti a dialoghi tra sordi".
 Viva Camila, viva le donne, viva i sognatori comunisti.


lunedì 1 agosto 2011

il rugby, l'anti-calcio che salverebbe l'Italia



Noi appassionati del rugby - diversi e un po' sfigati come può esserlo in Italia chi non ama il calcio - abbiamo un sogno: vedere l' 8 settembre a Marsiglia, quando l' Italia giocherà con gli All Blacks la partita di esordio dei Mondiali, il premier, il leader dell' opposizione. Perché no?, il capo dello Stato. In buona sostanza, chi ha sulle spalle la responsabilità di guidare il Paese. Per un motivo elementare: abbiamo la convinzione che l' Italia abbia bisogno del rugby; che i princìpi del rugby consentano di guardare meglio lo «stato presente del costume degli italiani». Siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l' Italia. È un mistero inglorioso, per gli italiani, il rugby. Pochi sanno esattamente di che cosa si tratta. È un peccato perché il rugby ha le stesse capacità mitopoietiche del calcio e, come il calcio, permette di interpretare il mondo. Dalla sua, il football può vantare moltissimi scrittori che si sono misurati con quest' impresa. Qui da noi con il rugby si è misurato soltanto, che io sappia, Alessandro Baricco con tre cronache (due su questo giornale) che, per noi del rugby, sono ancora oggi una medaglia da mostrare in giro. Di quelle cronache, negli spogliatoi e sugli spalti semideserti, se ne conoscono le frasi a memoria. Un paio in particolare: «Rugby, gioco da psiche cubista»; «Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va fuori di testa». Non si discute la scintillante eleganza della scrittura. Mi sembra, però, che la prova di Baricco confonda quel poco che nel rugby è chiaro. «Psiche cubista». A naso, credo che si possa contestare l' accostamento tra i volumi, i vuoti del cubismo e il rugby. Il rugby è fatto di traiettorie e di pieni, quando è ben organizzato e giocato. Se si apre un vuoto è per sfinitezza o errore tattico. L' omogeneità dello spazio non interrotto, impenetrabile alle cose, di Braque mi appare l' immagine rovesciata del rugby dove i giocatori devono irrompere continuamente nello spazio altrui. Il fatto è che faccio molta fatica a vedere nella leggiadria nuda e molle de Les demoiselles d' Avignon di Picasso l' esplosività di una "linea trequarti", nella certezza che non si possa trattare di un "pacchetto di mischia" (gli "avanti" hanno troppo da fare là sotto per essere leggiadri). Soprattutto i tempi non tornano. Quando il cubismo nacque tra il 1907 e il 1908 al Salon d' Automne, il rugby era già più che maggiorenne con i suoi ottantaquattro anni, se è vero che uno spiritello anarchico consigliò a quel mattocchio d' irlandese di William Webb Ellis - nel Bigside della "pubblic school" di Rugby - di afferrare la palla con le mani e di non giocarla con i piedi, il 1 novembre del 1823. Qualcosa sulla natura del gioco vorrà, dovrà pure svelarsi se è nato nel terzo decennio dell' Ottocento e non nel primo del Novecento. La differenza - mi pare - è addirittura decisiva per comprendere quale cultura, nella sua fase originaria, sia custodita dal carattere del gioco. A cavallo di quel 1823 in Inghilterra è in corso una rivoluzione. Il Paese - il primo Paese urbanizzato e modernizzato della storia - è "l' officina del mondo", un vortice impetuoso di scienza, tecnologia, industria, istruzione, cultura, riformismo politico che cancella le antiche demarcazioni sociali tra signori e contadini, fra agricoltori nelle campagne e artigiani nelle città. La forza di quel processo di modernizzazione in movimento in quegli anni divide più che unire. Nella grande Isola, scrive Benjamin Disraeli, ci sono "due Nazioni": «Non vi è comunità in Inghilterra~ Crediamo di essere una Nazione e siamo due Nazioni sullo stesso territorio, due Nazioni ostili nei ricordi, inconciliabili nei progetti». (Già qui qualche eco della nostra attuale condizione dovrebbe appassionarci). Nella palude di una nazione divisa affiora la necessità di trovare ragioni comuni, l' urgenza di creare un sistema educativo capace di formare giuristi, medici, funzionari dello stato, scienziati che sappiano - sì - lavorare con efficienza, ma siano anche consapevoli dell' interesse pubblico e dotati di "buone maniere". In questo bisogno prende forma l' idea di Thomas Arnold, preside della Rugby School, l' autentico padre del gioco, al di là del mito fondativo che fa di William Webb Ellis l' eroe.e trova il suo slogan nell' esortazione vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii uomo. Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi siano indotte da un pratica auto-repressiva, governata dal Super-Io. Credo che non sia coerente allora parlare di "follia", di "caos", di «una partita di calcio che va fuori di testa». Il rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in gara per conquistare l' area di meta e schiacciarvi l' ovale. Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l' apparenza, è l' esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture. Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l' odio è paura cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l' arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a qEgli immagina un nuovo modello educativo fondato su una "cristianità energica", sul servizio alla collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità; una formazione innervata da valori che, senza rallentare "l' officina del mondo", cancelli la frattura che si è creata tra le "due Nazioni" con il rispetto e la reciproca comprensione, una memoria comune, un progetto non più "inconciliabile", ma condiviso. (Quanto questo sia necessario - oggi - all' Italia è inutile dire). Thomas Arnold è convinto che lo sport possa avere un ruolo essenziale in questa missione. Il corpo lo si può dire veramente "formato", conclude, soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un ideale morale. Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine della "formazione morale". Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la sconfitta, si rafforza la sua stabilità emotiva. Lo si prepara al servizio sociale perché si confronta con grande impegno in un quadro di regole reciprocamente accettate. Gli si insegna a rispettare l' avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad accettare serenamente e senza alibi l' esito della competizione. Una partita - soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby - apre il solco entro cui si definisce un ethos, un' idea di gentleman, un modo di stare al mondo e con gli altri. Offre la possibilità di dimostrare forza d' animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di quella etica del fair play, chuella. Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l' ingegno talentuoso e non il metodo. La furbizia e non la lealtà. L' inventiva e mai la preparazione. Il "miracolo" e mai l' organizzazione. L' individualità e mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del "gruppo chiuso" e mai il desiderio di farsi stimare da chi al "gruppo" (ceto, famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l' ammirazione che suscita nell' avversario. Il rugby - la comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine - spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del nostro stare insieme. Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo all' identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per riformarla. L' appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l' 8 settembre. Le prenderemo, ma non importa. Play up and play the man!

Giuseppe D'Avanzo

4 settembre 2007


Nonostante tutte le eccellenti inchieste, questo è l'articolo che Peppe D'Avanzo (come lo chiamavano i suoi amici) amava di più tra tutti quelli che aveva scritto.